domenica 3 agosto 2014

THE MISCONOSCIUTO'S CULT ALBUM COLLECTION - Capitolo I



JACK HARDY - Mirror Of My Madness (1976)





Ci fu un tempo in cui il sottoscritto si aggirava per la città in cerca spasmodica di nuova musica. Cinque o sei erano le mete privilegiate, negozi di dischi ormai per lo più scomparsi, travolti via con l'arrivo del nuovo Millennio. Erano gli ultimi fuochi di un'epoca gloriosa, di quando la musica la si andava a scoprire nei negozi, con la complicità di negozianti che prima di tutto erano appassionati e poi commercianti. Bé, chiaro, qualcuno sapeva coniugare le due cose e, di solito, quando lo faceva erano guai per il portafoglio, tanto più quello magro magro di un adolescente.
In quei negozi si andava prima di tutto per ascoltare e scoprire. Internet c'era già però non bastava. Servivano gli stimoli, i suggerimenti, le dritte, i consigli di qualcuno che, almeno alla lontana, conoscesse i tuoi gusti e cercasse di allargarli. Così, c'era un tempo in cui battevo il centro di Torino, in direzione Via Cesare Battisti, meta Rock and Folk reparto vinili, in cerca di dischi di cantautori americani. Arlo Guthrie, Tom Rush, Gene Clark, Eric Andersen, Townes Van Zandt, Guy Clark erano solo alcuni dei nomi che ho scoperto lì dentro, artisti che sono entrati di schianto nella vita di un ragazzo di sedici-diciassette anni folgorato sulla via dei folksingers.
Il proprietario, però, mi diceva sempre che ce n'era uno che era superiore a tutti o quasi. Il suo nome era Jack Hardy. Peccato che i suoi dischi non si trovassero nemmeno a cercarli col lanternino. Comunque, ogni volta che veniva fuori il nome di Jack Hardy, la risposta che mi veniva spontanea era: “ecchiccazzè?” (così, tutto attaccato, suona decisamente più realistico). Finché il negoziante in questione, probabilmente stanco della mia irriverente risposta, pensò bene di regalarmi una cassetta C-60 con sopra un disco del 1976, intitolato Mirror Of My Madness.
Allora non sapevo nulla di lui, non sapevo che fosse un discendente della famiglia Studebaker (ossia i più importanti costruttori di diligenze d'America), non sapevo che avesse origini irlandesi, non sapevo che grazie a lui avevano mosso i primi passi personaggi come Suzanne Vega, Tracy Chapman o John Gorka, non sapevo del suo impegno civile e culturale al fianco di Dave Van Ronk, storico esponente del Greenwich Village newyorchese degli anni Sessanta. Non sapevo assolutamente nulla, in sostanza.
Eppure rimasi maledettamente colpito da quel disco, su quella cassetta che conservo ancora ma che è oramai quasi inascoltabile per l'usura. Certo, sono ancora convinto che la definizione “Miglior autore americano degli anni Settanta” fosse decisamente iperbolica. Forse era colpa di una voce aspra e poco educata, certamente molto dylaniana, come molto dylaniano è tutto l'impianto dell'album intero, che riporta alle scarne partiture di un disco come John Wesley Harding, certamente uno degli album più belli di Dylan ma non di certo uno di quelli a cui più artisti si sono ispirati, almeno a livello di suoni. Certo che però le storie Jack Hardy le ha sempre sapute raccontare. Saranno state le sue origini irlandesi, che musicalmente non trasparivano ancora in questo Mirror Of My Madness ma che il musicista avrebbe abbondantemente approfondito in tutta la produzione successiva, sarà stata la gavetta nelle riviste del folk newyorchese; fatto sta che l'arte del racconto è sempre stata centrale nell'opera di Hardy, come traspare nei solchi di questo disco.
Prendere, per esempio, la storia urbana di vagabondaggi ed ubriacature a tempo di ¾ di Resolution o la quasi-novella iniziale di The Tailor, il cui impianto di ballata era quasi fuori tempo massimo nel 1976. Letteralmente meravigliosi erano poi gli affreschi di Down When The Rabbits Run o del lungo flusso di coscienza di Big Wheels, un treno folk a base di chitarre acustiche e secchi incisi di armonica.
Il pezzo più bello di tutti, e – quello sì! - una delle più belle canzoni uscite dalla scena dei singer-songwriters nei Settanta, era però Night On The Town, certamente il pezzo dall'impianto più rock del lotto, aperto e tagliato a metà ancora una volta dall'armonica e caratterizzato da un testo visionario e, manco a dirlo, notturno ed urbano. Un brano eccezionale, senza alcun dubbio, perla di un disco di per sé già eccellente, un disco senza dubbio “di culto”, intendendosi con questa definizione “uno di quegli album che nessuno si è filato per quarant'anni e che, eppure...”.
Jack Hardy, dopo Mirror Of My Madness, ha messo insieme una bella serie di album, tutti di buon valore, con alcuni picchi compositivi notevoli (a tutti consiglio l'ottimo The Hunter del 1987 e le antologie Retrospective del 1984 e The Tinker's Coin, dove sono raccolte le sue composizioni più belle di stampo irlandese), fino alla scomparsa per un male incurabile nel marzo 2011.
Ho fatto in tempo a vederlo dal vivo, al FolkClub di Torino, nell'aprile del 2010 (quando oramai di anni ne avevo “ben” venticinque), accompagnato solo dalla sua chitarra e dalla sua armonica, e in quella dimensione ho capito perché il mio amico negoziante ne parlava come un gigante. Era carismatico e la forza compositiva delle sue canzoni, in quella veste così scarna, risaltava molto più che nei dischi.
Prima del concerto mi avvicinai a lui e gli chiesi di suonarmi proprio quella Night On The Town che tanto avevo amato da ragazzino. Lui si mise a ridere e mi disse grossomodo: “E tu come cazzo fai a conoscerla?”. Gli risposi, anch'io ridendo: “È una lunga storia...”. Jack mi diede una pacca sulla spalla e mi disse: “Ok ragazzo!” e, durante il concerto me la dedicò. C'è mancato veramente poco che mi mettessi a piangere. Vedete quante cose possono nascere da una C-60?


(Qui sotto potete ascoltare in streaming l'intero Mirror Of My Madness. Fatelo, ne vale veramente la pena.)





giovedì 6 marzo 2014

AFFINITÀ E DIVERGENZE FRA LA GRANDE BELLEZZA E LA CORAZZATA KOTIOMKIN: un Je(p) accuse in piena regola




Siamo sicuri che se Guidobaldo Maria Riccardelli fosse nato qualche anno dopo, sarebbe andato in solluchero per un film come “La Grande Bellezza”. Il “montaggio analogico!” sarebbe stato sostituito di certo dal “piano sequenza!”, “l’occhio della madre!” da “le rughe della Santa!”, “la carrozzina!” da “la statua di Garibaldi con la scritta!”. Un appassionato ed esperto di cinema come lui si sarebbe sciolto come un ghiacciolo nel deserto del Sahara a mezzogiorno per le incredibili riprese di Paolo Sorrentino, per i meravigliosi colori della pellicola, per gli stacchi di montaggio, condotti con una perizia incredibile, per le riprese esterne, soprattutto notturne. Come potrebbe essere altrimenti? Anche i peggiori detrattori non possono fare a meno di riconoscere al regista napoletano delle doti assolutamente fuori dal comune (e no, non stiamo parlando del Comune di Roma).
Allo stesso modo, la prova d’attore di Toni Servillo è fuori da ogni discussione (sebbene inferiore – almeno a parer nostro – alla memorabile interpretazione da lui offerta nel molto meno memorabile “La ragazza del lago”): è lui che tiene in piedi l’intero film, con la sua ghigna accidiosa e imperscrutabile, la sigaretta perennemente agganciata fra i denti e l’incedere indolente e insofferente allo stesso tempo.
Queste premesse però non sono sufficienti: se qualcuno, là alla premiazione degli Academy Awards, fosse saltato sul tavolo dei giurati con tanto di stivali da cowboy (ci permettiamo di emulare il citazionismo di Sorrentino ma – essendo decisamente meno acculturati di lui – invece di Céline e Flaubert ci accontentiamo di citare Steve Earle) e fosse deflagrato al grido liberatorio e apotropaico di “La Grande Bellezza... (pausa di suspence) …È UNA CAGATA PAZZESCA!”, probabilmente dai novantadue secondi di Los Angeles si sarebbe passati ai canonici novantadue minuti di applausi.
Perché?
Non è una questione di frammentarietà della trama: sulla frammentazione del soggetto, sulla tecnica del flash-back (emblematico è lo stacco improvviso dalla conversazione a cena fra Servillo e Sabrina Ferilli ci si sposta in una camera illuminata con un ragazzo in mutande che palleggia ossessivamente accompagnato dalla sigla iniziale di Novantesimo Minuto), sui silenzi improvvisi che accompagnano certe scene e sulle musiche ossessive che ne accompagnano certe altre c’è poco da dire. Sorrentino altro non fa che recuperare mezzi espressivi già usati mille volte prima di lui.
Il problema sostanziale è un altro: il vuoto narrativo, totale e desolante, che promana dallo sfogo estetico e tecnicista di Sorrentino. Innanzitutto, la storia è una “non storia”, dalla trama sottilissima e quasi impercettibile, esile filo che lega insieme la dicotomia fra la bellezza degli ambienti scenici e la bruttezza grottesca e spesso caricaturale delle figure dei personaggi che appaiono nel corso del film spesso tenuta insieme da una miriade di citazioni letterarie (Flaubert, Céline, Dostoevskij fra gli altri). Ma questo non sarebbe di per sé un problema, se al centro del tutto non ci fosse la weltanschauung da supermercato del protagonista, l’”eterno io” Jep Gambardella (pare del tutto voluta l’assonanza “Jep”/”Je”), che si muove fra battute da supermercato, crisi di desolazione, suggestioni colte e grettezze varie. Un campionario, insomma, da rito itifallico per intellettuali (sì, abbiamo usato la parola “itifallico” ma, d’altronde, se vi è piaciuto il film siete quel genere di persone che ne comprendono il significato…).
In questo panorama da bildungsroman spicciolo di un’anima incartapecorita, le figure dei personaggi di contorno sono monodimensionali, prive di consistenza, simboliche all’eccesso. Troppo facile giocare con le assonanze: Roma – la grande madre di tutto il film – Romano – il figlio tipico di una madre in decadenza – Ramona – la figlia morente e moribonda. Troppo facile giocare con i luoghi comuni, i Conti decaduti, le contraddizioni della Chiesa Cattolica, dicotomizzata fra la carnalità surreale e quasi comica del Cardinale Bellucci e l’ascetismo mistico della Santa, che non a caso si nutre solo delle proprie “radici”, la caricatura della femminista archetipica, del marito abituale cliente di meretrici, della giornalista senza scrupoli e con  un debole per i toy boy. Potremmo andare avanti per un’ora ma i lettori probabilmente si stuferebbero prima, si ammutinerebbero e ci costringerebbero a guardare per due giorni e due notti consecutive a rotazione “Giovannona Coscialunga”, “L’esorciccio” e “La Polizia si incazza”. E dubitiamo che il terzo giorno la polizia si possa incazzare veramente, almeno questa volta, visto che non ci chiamiamo – aridaje! – Guidobaldo Maria Riccardelli e non siamo dirigenti della Mega-Ditta.
Ma al di là del contorno, quello che non convince è soprattutto la gigantografia del PERSONAGGIO simbolo del film.
Facciamo un passo per volta.
“Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l'immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient'altro che una storia fittizia. Lo dice Littré, lui non sbaglia mai. E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi. È dall'altra parte della vita.” (Louis Ferdinand Céline)
Questa frase è il compendio perfetto di tutto il film. Il viaggio che si racconta è un viaggio immaginario, un viaggio mentale dell’io attraverso la decadenza umana, propria e della società circostante. Il protagonista si sente dotato di una sensibilità fuori dal comune e, fin dall’inizio, se ne vanta.
“A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: "La fessa". Io, invece, rispondevo: "L'odore delle case dei vecchi". La domanda era: "Che cosa ti piace di più veramente nella vita?".Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore. Ero destinato a diventare Jep Gambardella.”
La reazione è: “e quindi?”. L’autoreferenzialità del personaggio – o meglio, dell’antipersonaggio – principale è assolutamente totale e irritante. Suona falsa, inventata, una proiezione del proprio super-io su tutti i fatti circostanti. Una proiezione di sé assolutamente ingiustificata e senza fondamenti concreti. Tutto concorre all’affermazione del contrario.
Le battute teatrali di Jep Gambardella, colui che ricerca “La Grande Bellezza” sono un’accozzaglia di banalità, luoghi comuni, frasi apparentemente piene di respiro poetico e umano ma che alla fine si declinano nel nulla. La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto 65 anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare", dice Jep/Je. Parrebbe una frase di profondità umana grandiosa, che tocca le corde emozionali dell’Uomo. Eppure, a leggerla tra le righe, non è che un’affermazione cinica ed auto-commiseratoria: il protagonista la usa soltanto per giustificare la propria fuga dopo l’ennesimo atto sessuale vissuto come una “masturbazione con corpo altrui”. Niente più di questo, niente più (anche questa è una citazione romana fin nel midollo. Ai lettori il compito di scoprirne la dottissima fonte).
Prendiamo poi le lacrime al funerale: sono un attimo solo di debolezza, poi la morte tornerà ad essere esorcizzata come prima, nient’altro che un trucco. Finzione suprema, scenica ed emotivamente forte. Ma vuota, vacua, olezzante di autocompiacimento. D’altronde, la scritta sul basamento della statua all’inizio del film, “Roma o morte”, dice molto. Può essere letta in due sensi: “Roma È morte”, come atto d’accusa, o “Roma O morte”, come esorcismo, quello stesso esorcismo di cui Jep/Je è tanto curioso, cercando di soddisfare la propria curiosità con il Cardinale Bellucci.
Nel crogiuolo dei luoghi comuni, non poteva mancare neppure la stoccata politica, impersonata dal misterioso vicino di casa di Jep/Je, imperscrutabile per tutte le millemmillemmille ore della durata del film (non stupitevi di questa affermazione. Einstein, sul punto si sarebbe certamente espresso così: Quando un uomo siede per tre giorni in compagnia di una bella ragazza, sembra siano passati centoquarantadue minuti. Ma fatelo sedere davanti a La Grande Bellezza per centoquarantadue minuti e gli sembreranno più lunghi di qualsiasi tre giorni consecutivi. Questa è la relatività.”), salvo poi epifanicamente ed itifallicamente (se vi è piaciuto il film ecc. ecc.)  manifestarsi come un ricercato internazionale, che accusa Jep di lassismo mentre lui, sì, lui è uno che fa girare il mondo! Trionfo. Altro che novantadue minuti d’applausi. Ce ne vorrebbero almeno centottantaquattro. Di badilate nei denti, però, tanto la trovata scenica pare posticcia e quasi prevedibile.
Il cinismo mascherato di desiderio di infinito però trova l’apoteosi nel finale, con l’apparentemente cambiato protagonista che va “a ritroso”, come Des Esseintes, il protagonista del romanzo di Huysmans, che si ritira dalla vita mondana di Parigi rifugiandosi lontano dal chiacchiericcio della solita vita, a dare l’ennesimo sfogo al proprio ego: non più le feste ma la celebrazione del proprio ego, il ricercare le radici come esorcismo della morte, per scrivere finalmente quel “romanzo sul nulla” che avrebbe sempre voluto scrivere. Amen.
Tutto ciò che colpisce nel film è pura forma, puri input emozionali, pura estetica, senza alcuna sostanza. La sostanza è il nulla, è la celebrazione di una bellezza statica che non partecipa della vita del mondo, come gli dei greci dal loro splendore contemplavano i poveri “omini terragni, tutti ugualmente brutti” (questa citazione, invece, appartiene al più grande regista di commedie italiano, quel Mario Monicelli cui la Giustizia Divina in Paradiso non concederà settantasette vergini ma settantasette Oscar) senza compassione né simpatia (“syn” + “pathein”, sentire insieme, commuoversi), la celebrazione della tecnica artistica. È l’esorcismo della Morte attraverso la celebrazione dell’io. Un io – Je – non profondo nel starle di fronte ma effimero, superficiale, lontano da sé.
Tutto ciò, però, porta ad una considerazione di carattere più generale.
Il problema sostanziale dell’arte è che non può essere mai pura estetica, deve contenere in sé un rimando a qualcosa d’altro, e in questo La Grande Bellezza, richiama più le celebrazioni dell’estetica del nulla di Bernardo Bertolucci che la poetica del sogno di Federico Fellini. L'arte deve sempre essere un sottile equilibrio fra significante e significato e quando l'opera si sbilancia troppo nell'uno o nell'altro senso non si può più parlare di arte.  In "La Grande Bellezza" tutto è solo significante. Più che “La Grande Bellezza” è “La Grande Guittezza” (questa citazione, che “sa di ratafià” è forse un po’ troppo piemontese ed un po’ troppo poco romana): si può restare emotivamente ammirati per la magnificenza delle scene, per i dotti rimandi citazionisti (se si è intellettuali il godimento probabilmente sarà amplificato), per le ondate emotive di alcune singole scene o di alcune frasi ma, gratta gratta, rimane soltanto un onanistico “bla bla bla” senza nulla sotto, eppure confezionato in una scatola meravigliosa.
In conclusione, ci viene da dire che forse Sorrentino ha sbagliato a scegliere la citazione di Céline per l’incipit del film.
Forse questa sarebbe stata più appropriata: “Il viaggio è la ricerca di questo niente assoluto, di questa piccola vertigine per coglioni”.
Ovviamente, i coglioni siamo noi.

La redazione di Shomer-ma-mi-llailah:
Gabriele D. Gatto
Jerry Lee Cat
Le Vieux Chat

P.s.: In sintesi: le affinità di cui al titolo stanno nella categoria di appartenenza dei due film, entrambi sotto la voce “Cagata pazzesca”. Le divergenze stanno nel fatto che “La Corazzata Kotiomkin” non viene trasmessa in prima serata su Canale Cinque.

venerdì 29 novembre 2013

BLACK SHEEP BOYS – Un percorso attraverso i sentieri oscuri del cantautorato americano.

UNA PICCOLA INTRODUZIONE

In principio era il folk revival. La rinascita del folk aveva casa in New York, Greenwich Village, là dove chiunque con una chitarra poteva sperare di cambiare il mondo. La politica e la musica si mischiavano ed ogni giorno arrivavano nuovi aspiranti folk singer giunti dai quattro angoli della terra promessa chiamata America, tutti con la propria chitarra acustica in mano, di soldi in tasca niente e, il più delle volte con un talento più da “giornalisti” che da cantanti.


1. FRED NEIL, L'UOMO DALLE OMBRE NEGLI OCCHI

Tra di loro ce n’era uno in particolare che su tutti metteva soggezione ed incuteva timore già solo per l’aspetto altero. No, non si parla di quel ragazzetto paffutello e imberbe che di lì a poco sarebbe diventato Bob Dylan. Lui era Fred Neil e veniva dalla Florida, nonostante la sua proverbiale ombrosità facesse a pugni con la solarità dei suoi luoghi natali.
Racconta Bob Dylan nel suo Chronicles – Volume 1, fedele racconto di quei primissimi anni Sessanta, che Fred Neil era capace di tenere in pugno il pubblico soltanto con uno sguardo, tanto la sua presenza era magnetica e carismatica. Neil non era un folk singer come tutti gli altri. Conosceva il jazz e il blues a menadito e aveva nelle sue liriche una forza visionaria che i più si potevano soltanto sognare.
La sua musica aveva ben poco da spartire con quella dei tanti emuli di Woody Guthrie. Lui la tradizione la conosceva meglio di tutti e per questo poteva permettersi di tradirla come e quando voleva. Così quando nel 1966 diede alle stampe il suo terzo album, intitolato semplicemente col suo nome, segnò una svolta nella storia della musica americana. Se ne accorsero in pochi, in realtà. Quel disco dalla copertina scura – una foto in bianco e nero dell’autore insieme al figlio su campo nero – avrebbe lasciato una traccia molto più profonda e significativa del numero delle copie vendute.
L’anno prima era uscito il primo disco completamente a suo nome, dopo un album a due con il folk singer Vince Martin. La copertina di quel suo primo disco era il simbolo di una generazione, al pari di quella di The freewheelin’ Bob Dylan. Lui lì, in piedi in mezzo alla strada, in un incrocio notturno di strade, col blu fondo della notte tagliato in due dalle insegne dei locali di New York, dove pulsava l’anima di una generazione. Quel suo primo disco era un incrocio di folk e blues, con i primi accenti elettrici che lampeggiavano vivi nei solchi e, su tutto, una voce baritonale a guidare il tutto.
Ma fu proprio con quel disco omonimo che Neil segnò la storia del cantautorato americano. Una chitarra carica di riverbero, che metteva in musica lo sciacquio delle onde del mare, segnava il preludio di uno dei momenti più alti mai ascoltati su disco. The dolphins era messa lì in apertura del suo omonimo album. Difficile definire quella canzone. Non era un brano folk. Era qualcosa di diverso e profondamente nuovo. Un pezzo che sembrava arrivare da chissà dove, da oltre la linea dell’orizzonte, un pezzo di vele e di vento, di sciabordare del mare, di echi lontani ed indefinibili.
C’erano poi brani dall’eco più blues, a significare l’anima tradizionalista di Neil. C’era un bislacco pezzo psichedelico di otto minuti dal titolo impronunciabile (Cynicrustpetefredjohn Raga) che sembra più uno scherzo che altro. Ma, soprattutto, c’erano tre brani che avrebbero influenzato una generazione di autori e cantanti.
Faretheewell (Fred’s tune) altro non è che una ripresa di un noto tema folk – Dink’s song – ma rallentato all’inverosimile e tutto sospeso fra gli scuri vibrati del canto di Neil ed arpeggi appena impercettibili di chitarra. Non c’è alcuno schema. L’accompagnamento musicale viene dilatato e staccato dalla linea della melodia tracciata da Neil, che pare sospesa per aria, oscura ed eterea allo stesso tempo. Green rocky road è un tempo a ¾ dall’andamento jazzato, dove ancora una volta la voce viaggia libera, divincolandosi dalle strette briglie dell’accompagnamento.
E poi c’è Everybody’s talking, la canzone che quasi tutti conoscono per la cover che ne fece Harry Nilsson nella colonna sonora di “Un uomo da marciapiede”. La versione del suo autore è però più meditabonda e allo stesso tempo inquieta. Ascoltandola, sembra proprio di vedere le ombre degli occhi della gente di cui parla il testo. “Non lascerò che tu ti lasci alle spalle il mio amore, no, non lo permetterò”. Mai vi è stata una canzone capace di condensare il rimpianto in così pochi versi. Everybody’s talking fu l’unico successo di Fred Neil (sebbene come autore e non come interprete). Di questo disco, il pubblico non se ne accorse quasi per nulla. D’altronde, il suo fascino era un fascino nascosto, segreto, lontano degli sfarzi del mondo pop ma anche dalle nuove ondate musicali che attraversavano l’America da costa a costa e che avrebbero portato di lì a poco ad una lunga ed effimera estate dell’amore.
Neil non si curava di tutto ciò che gli stava intorno e poco a poco finì per perdere interesse per la musica. Dopo il suo album omonimo, Neil non registrerà più nulla in studio, limitandosi in rarissime occasioni ad esibirsi dal vivo, per platee composte più che altro da vecchi amici, ad interrompere sporadicamente un silenzio trentennale, durato sino alla morte, giunta nel 2001.

Eppure, forse non se n’era neppure accorto, ma Fred Neil aveva aperto un sentiero che molti altri, nel futuro più o meno lontano, avrebbero percorso.

2. TIM HARDIN, LA PECORA NERA

Erano in tanti, in quei primi anni Sessanta, a frequentare quelle stesse tavole di quegli stessi locali di New York dove Fred Neil dava lezioni a tutti, Bob Dylan compreso. Erano in tanti ma i più restavano anonimi raschia-chitarre in fuga dalla vita vera, gente senza talento che la macina del tempo avrebbe frantumato e consegnato alle muffe del dimenticatoio. Ce n’era uno, però, che non poteva passare inosservato.
Diceva di essere un pronipote del bandito John Wesley Hardin, uno dei fuorilegge simbolo d’America, un emblema degli eterni desperados che vagavano gli Stati Uniti soffiando sul fuoco della controcultura (e che da quello stesso fuoco sarebbero rimasti bruciati). Già questo bastava per renderlo diverso da tutti. In più era stato nel corpo dei marines, spedito a diciotto anni a marciare fra le paludi dell’Indocina, fra Laos, Cambogia e Viet Nam, a preparare il terreno alla follia della guerra più lunga e più assurda dalla resa del 15 agosto 1945. Laggiù, fra una tappa forzata e l’altra, tra acquitrini e durezze assortite della vita militare, avrebbe scoperto un nemico con cui combattere tutta la vita. Un nemico più bastardo delle Sirene di Ulisse: l’eroina. Poteva essere lui il Sam Stone qualsiasi cantato pochi anni dopo da John Prine, nel suo inno malinconico dedicato ai reduci che tornavano imbottiti di sostanze chimiche, unico viatico per reggere le pressioni e gli sconvolgimenti psicologici causati dalla “sporca guerra”.
Ma, allo stesso tempo, nelle sere afose passate all’addiaccio aveva imparato a suonare la chitarra, proprio come Johnny Cash durante il suo periodo di ferma in Germania ed aveva scoperto una vocazione da narratore ed era stato folgorato dalle storie oscure dei vecchi blues.
Così, non appena tornato in America, all’inizio degli anni Sessanta, il passo per giungere al Greenwich Village fu breve. Là si iscrive all’Accademia di arte drammatica newyorchese ma durerà ben poco. I ritmi e gli impegni che gli studi richiedono non si conciliano con una vita sregolata e notturna, in cui l’alba sorprende Tim ogni mattina in un locale diverso.
Però qualcosa si muove. Hardin ha trovato un amico che se lo è preso sotto a cuore. Quell’amico è proprio Fred Neil, l’austero Fred Neil, che ne aveva intuito prima di tutti il talento e sapeva che i pericoli per Tim non arrivavano dalla concorrenza degli altri folk singer ma dai suoi stessi demoni che lo rodevano dall’interno. Di lui si era accorta anche la Columbia, che dopo Bob Dylan cercava di mettere a segno il suo secondo colpo nel mondo del folk revival. Ma ben presto si accorse che da quel cantautore poteva cavarci ben poco. Non aveva la visionarietà di Bob Dylan né una visione politica articolata come Phil Ochs. Non aveva neppure un aspetto particolarmente affascinante o magnetico. E soprattutto, la sua musica suonava troppo cupa e riflessiva, troppo ripiegata a scavare nelle proprie inquietudini. Un po’ troppo inaccessibile, in un epoca di acceso “positivismo musicale”. Gli spari di Dallas non avevano ancora raggiunto il cuore dell’America e in mezzo a tutta quella gente impegnata a cambiare il mondo Hardin sembrava un vero e proprio fantasma.
Quelli della Columbia non ci misero molto a scaricarlo senza grossi rimpianti, nonostante i buoni uffici sui quali Hardin poteva contare fra i colleghi. Aveva registrato alcuni demo con un piglio folk-blues (fra cui, guarda caso, una Blues on the ceiling scritta proprio da Neil) ma senza alcun esito vero. Sarebbero stati riesumati qualche anno dopo, neppure allora con grosso successo.
Gli schiaffi subiti a New York segnarono ulteriormente un animo già inquieto e pronto a rifugiarsi nella bottiglia per sfuggire alla dura realtà dei fatti. Così, sdegnato di tutto, Tim fece i bagagli ed attraversò l’America, destinazione California, per provare a far ripartire la propria vita e la propria carriera. Incontrò Susan Yardley, un’attricetta da soap opera, e la sposò quasi subito, facendone la sua musa ispiratrice. E subito sgorgarono le canzoni. Una più bella dell’altra: Reason to believe, It’ll never happen again, Part of the wind, Misty roses, If I were a carpenter, You upset the grace of living when you lie e The lady came from Baltimore (a parere – molto parziale – di chi scrive, la più bella canzone mai scritta) si stagliavano su tutte. Di fronte ad un tale stato di grazia compositiva, Hardin rimediò un nuovo contratto, questa volta con la Verve Forecast. Prese Susan, nel frattempo rimasta incinta, e saltò di nuovo ad Est, stabilendosi nei pressi di New York.
Tra il 1966 ed il 1967 uscirono i suoi due primi veri album, intitolati semplicemente Tim Hardin e Tim Hardin 2. Le canzoni erano in gran parte dei sognanti bozzetti folk con vaghe ascendenze jazz, malinconiche, concise e dirette, che toccavano l’intera gamma di emozioni dell’animo umano. Peccato solo per un po’ di orchestrazioni posticce che appesantivano brani che avrebbero necessitato di tutt’altra semplicità. Qualcuno si accorse di lui. Il suo repertorio fu saccheggiato da altri artisti. Il cantante pop Bobby Darin portò If I were a carpenter fino alla posizione 8 della classifica dei singoli. La critica incensò quegli album seppure non ancora perfetti.



L’apoteosi artistica arrivò però nel 1968. Tim Hardin aveva notoriamente paura del palcoscenico, paura amplificata dalle proprie dipendenze da alcool e droghe, da cui tristemente non si era mai liberato veramente. Era anche restio ad esibirsi accompagnato da una band, un po’ perché i concerti in acustico erano più redditizi (e, si sa, è difficile mantenere economicamente i propri vizi e una famiglia allo stesso tempo), un po’ perché la sua instabilità rendeva difficoltose le prove e il crearsi di una sinergia col gruppo. Tuttavia la Verve gli mise a disposizione una band eccezionale composta da jazzisti di prim’ordine, fra cui spiccavano Eddie Gomez, storico bassista nel trio di Bill Evans, il pianista Warren Bernhardt, pupillo di Evans e collaboratore di Kenny Burrel e Gerry Mulligan, e soprattutto lo straordinario vibrafonista Mike Mainieri, uno dei più grandi virtuosi dello strumento, il cui tocco avrebbe contribuito a dare le pennellate musicali più marcate e splendenti alle canzoni di Hardin.
Quella sera del 10 aprile 1968, alla Town Hall di New York, Hardin arrivò in forma strepitosa, nonostante le pochissime prove con il gruppo, che si trovò ad improvvisare quasi tutto in corso d’opera (un po’ come avvenne per i musicisti che, pochi mesi dopo, avrebbero dato vita a quel capolavoro rispondente al nome di Astral Weeks assieme a Van Morrison. Ma questa è un’altra storia).
I brani di Tim si libravano in volo, liberati dalle catene degli arrangiamenti in studio. Una dietro l’altra, Lady came from Baltimore, Reason to believe, e via andare, in un lungo e appassionato stream of consciousness musicale. La Verve ne ricavò un disco dal vivo, intitolato Tim Hardin III Live in concert, che rimane ancora oggi una pietra miliare insuperata nella storia della canzone d’autore americana. Le vendite non furono entusiasmanti ma neppure troppo scarse, e soprattutto le sue canzoni venivano costantemente reincise da altri artisti, da Johnny Cash in poi.
Il treno sta passando. Pare che il grande salto verso l’Olimpo sia solo una questione di formalità. Eppure qualcosa si rompe. Hardin è sempre più preso dalle proprie dipendenze e dalle proprie paure. Non riesce più a scrivere canzoni, sembra in stasi creativa. Spesso torna a casa ubriaco e si lascia andare ad episodi di violenza nei confronti della moglie. In lui convivono due uomini:il poeta, per cui Susan è la Musa ispiratrice, l’Angelo, il faro dell’esistenza, ed il tossico, violento e senza più freni inibitori. Si esibisce perfino a Woodstock, ma in pochi si accorgono di lui. Colpa anche di un set viziato da un’evidente ubriachezza.
La Verve lo scarica, preoccupata dalle sue condizioni umane ed artistiche. Lo riprende quasi subito la Columbia che, ironia della sorte, era stata la prima a fargli firmare un contratto e a lasciarlo quasi immediatamente a piedi. Suite for Susan Moore and Damion: we are one, one, all in one è il primo lavoro per l’etichetta. Un lungo e solipsistico inno alla moglie e al figlio, composto da brani lunghi e complessi, dal pochissimo appeal commerciale. Nelle pieghe di questo disco, una vera e propria seduta psicanalitica, emergevano tutti i sensi di colpa di Hardin nei confronti della propria famiglia, che esorcizzava scrivendo veri e propri inni laici di lode ai propri cari.
Le cose precipitano. Tim è sempre più schiavo dei propri demoni. Susan se ne è andata, esasperata, portandosi dietro il figlio. La Columbia, a fronte del fallimento, è perplessa ma è pronta a dargli un’altra chance. La sua etichetta gli mette a disposizione una pletora di ottimi musicisti, fra cui Joe Zawinul e Miroslav Vitous dei Weather Report. Hardin lascia tutto in mano al produttore Ed Freeman e si limita a cantare per lo più brani altrui. Esce Bird on a wire, dove nonostante tutto la title track, noto brano di Leonard Cohen, diventa una ballata soul da togliere il fiato, anche per la straordinaria interpretazione vocale. Il resto, a parte un brano autobiografico, Andre Johray, che commuove più per la storia che si legge fra le righe che per il risultato musicale, è un disco valido ma che risente fortemente della totale disconnessione del suo autore dal mondo. Superfluo dire che, a livello di vendite, anche questo disco è un fallimento.
Tim Hardin si trasferisce in Inghilterra. Ma in Inghilterra l’interesse principale dell’artista non è la musica bensì il metadone, fornito dal servizio sanitario nazionale britannico. Lì, la Columbia gli concesse l’ultima opportunità, con le modalità del disco precedente. Tim si sarebbe limitato a incidere le parti vocali. Stavolta fra i musicisti spiccano Peter Frampton ed Alun Davies, chitarrista storico di Cat Stevens. Painted head, l’album che ne consegue, è uno sbiadito ritratto di un artista che non c’è, un collage di parti sovrapposte e che nulla rappresentano della grandezza autoriale di Tim Hardin. Inevitabile la rescissione del contratto.
Seguì un ultimo album, Nine, rilasciato per una piccola etichetta inglese, patetico tentativo di inseguire i terreni di certo blues rock radiofonico alla Joe Cocker, nel quale però spicca una sofferta e finalmente autografa Shiloh Town, che sarà esaltata qualche anno dopo da una maestosa versione da Mark Lanegan.
Poi fu un progressivo isolamento dal mondo, fino ad una fine ampiamente prevista e forse anche cercata, giunta nel 1980 per overdose di eroina. Eppure, nonostante tutto, come reca l’iscrizione della sua lapide, “Tim Hardin ha sempre cantato dal profondo del cuore”.

(…continua…)

giovedì 30 maggio 2013

25 dischi jazz dalla Blue Note aka Il rincoglionimento senile.

Per gioco e per rispondere alla richiesta di un amico, visto il mio annunciato rincoglionimento senile che si manifesta con la crescita esponenziale degli ascolti jazz, ecco venticinque dischi imperdibili e forse nemmeno troppo noti che tutti dovrebbero avere in casa e che si potrebbero consigliare tranquillamente ad un neofita che di jazz non capisce nulla. Siamo in ambito Blue Note, la più grande etichetta a cavallo fra gli anni '60 e '70...di più non dico perché non ho né tempo né voglia. Buon ascolto a chi vorrà cimentarsi!


"Cannonball" ADDERLEY - Somethin' else 

Che dire di questo disco, a parte tutto il bene possibile? Un mood molto molto delicato, un personale strepitoso (Adderley al sax, Miles Davis alla tromba, Hank Jones al piano, Sam Jones al contrabbasso e il grande Art Blakey alla batteria), una rilettura di Autumn leaves da brividi lungo la schiena. Disco a mio avviso fondamentale. 

Art BLAKEY - Moanin' 

Siamo in un ambito mainstream, in cui il jazz di Blakey non ha ancora quella connotazione spiccatamente sociale di dischi come Free for alll!, eppure siamo in un campo in cui il jazz si sporca (insolitamente, almeno per l'epoca, considerando che siamo nel 1958) di soul e se vogliamo anche di gospel. Il personale (Lee Morgan - tromba, Benny Golson - sax tenore, Bobby Timmons - pianoforte, Jimmy Merritt - contrabbasso, Art Blakey - batteria) è anche qui di altissimo livello, con un Lee Morgan che tocca alcune delle sue vette espressive assolute. 

Donald BYRD - Byrd in hand 

Se si cerca un bignami dell'hard bop, questo potrebbe essere un compendio ideale. Byrd esplosivo alla tromba, Charlie Rouse (con Monk nei suoi album migliori) grande al sax. Musica energica, decisamente incardinata in un'epoca specifica del jazz, eppure che suona entusiasmante ancora oggi. Occhio solo al combo un po' più allargato dei dischi sopra elencati (ma analogo ad un disco come Kind of blue, a livello di pezzi sonori). 

Paul CHAMBERS - Bass on top 

Riporto da sopra: qui siamo in ambito blue note, profondamente mainstream. Eppure, questo disco, composto prevalentemente da standards, si fa ascoltare tutto d'un fiato, soprattutto per i meriti dello straordinario Hank Jones al pianoforte. Nonostante il combo ristrettissimo (Paul Chambers - contrabbasso, Hank Jones - piano, Kenny Burrell - chitarra, Art Taylor - batteria), il disco è tutt'altro che noioso. Il sottoscritto, che peraltro non ama per niente la chitarra nel jazz, trova che il lavoro di Kenny Burrell, delicatissimo e mai fuori le righe, sia semplicemente eccelso. 

Sonny CLARK - Cool struttin' 

Il pianista Clark ruba la sezione ritmica (Paul Chambers & Philly Joe Jones) al Maestro Davis e gli ruba anche una composizione per un disco dove la coralità del tutto riesce perfino a smorzare un Jackie McLean (alto sax) che, a dispetto della sua torrenzialità, qui pare insolitamente misurato. Il resto lo fa l'abilità del leader, che riesce a torcere il blues e a renderlo personalissimo. 

Eric DOLPHY - Out to lunch! 

Pochi cazzi, questo è uno dei capolavori di ogni tempo. Non è un disco facile, richiede impegno, si sporge verso ricerche estreme e verso terre free eppure alla fine entra nelle ossa. Eric Dolphy è stato uno dei più grandi di sempre, grande al sax, che suonava con uno stile violento ed irruente, enorme al clarinetto basso, immenso al flauto traverso. In questo disco, il suo testamento ma al contempo abbastanza agevole da approcciare rispetto ad altri suoi lavori - soprattutto dal vivo - dello stesso periodo, lo accompagnano dei fuoriclasse assoluti (Freddie Hubbard — tromba, Bobby Hutcherson — vibrafono,Richard Davis — contrabbasso, Tony Williams — batteria). La title track è una delle vette di ogni tempo. 

Lou DONALDSON - Gravy train 

Qualcuno potrebbe storcere il naso nel leggere questo titolo fra i fondamentali. Lo giustifico subito, per me questo disco è divertimento allo stato puro. That's enterteinment! Costruito sapientemente fra standard pochissimo jazz (Alebsp che è "diversamente giovane" si dovrebbe ricordare di South of the border, conosciuta in Italia come "Stella d'argento"...) e brani originali di Donaldson, ha in più un tocco latino dato dalle congas di Alec Dorsey difficilmente rintracciabile nei dischi del periodo. 

Kenny DORHAM - Whistle stop 

Ingiustamente sottovalutato, Kenny Dorham è uno dei migliori trombettisti di sempre. Il suo stile è nervoso eppure melodico allo stesso tempo. Solitamente il suo capolavoro è considerato Una mas (consigliatissimo anch'esso, con Joe Henderson, Tony Williams ed Herbie Hancock), ma io gli preferisco questo, non foss'altro per uno sforzo compositivo enorme e per la presenza di un sassofonista che amo moltissimo, Hank Mobley, oltre alla "solita" coppia ritmica Paul Chambers/Philly Joe Jones di cui già ho detto in precedenza. Inoltre, i pezzi sono medio//brevi, cosa che giova alla grande all'immensa godibilità di questo disco. 

Dexter GORDON - Our man in Paris 

Va bene, è un disco di standard. Ma sono standard suonati con un piglio tra l'estrema delicatezza ed il divertimento più assoluto. Anche questo è un disco "di intrattenimento", eppure funziona, viaggia come un treno, grazie alla linearità di Gordon al sax e all'enorme apporto di un Bud Powell strepitoso al pianoforte. Un perfetto "party record". 

Grant GREEN - Idle moments 

Pur non amando i chitarristi, questo disco è FANTASTICO. Perché? Perché c'è Joe Henderson al sax. Perché c'è Bobby Hutcherson al vibrafono. E soprattutto perché Grant Green è un chitarrista geniale. Ok, c'è del blues (ma il blues interpretato dai jazzisti è tutta un'altra cosa) ma c'è soprattutto un musicista che usa la chitarra come una tavolozza dove gli accordi aperti sono colori tenui ed evocativi e dove il solismo non è mai esasperato e soprattutto è sempre improntato alla ricerca della melodia sopra tutte le altre cose. La title track, composta dal pianista Duke Pearson, è qualcosa di celestiale. 

Herbie HANCOCK - Maiden voyage 

Perché questo e non Empyrean isle? O non Takin' off? Non lo so. Perché mi piace di più... La line up è la line up di base del quintetto davisiano periodo Seven steps, con Tony Williams alla batteria, Ron Carter al basso e lo stesso leader al piano, cui si affiancano Freddie Hubbard alla tromba e George Coleman al sax. Il risultato è un disco scoppiettante, dove la modalità si incontra coll'hard-bop, col funk e con atmosfere vagamente caraibiche. Disco imperdibile. 

Joe HENDERSON - Page one 

Altro disco fondamentale dei fondamentali. Henderson è un sassofonista stellare, pioniere di sperimentazioni in chiave jazz-funk e musicista sempre fuori dalle righe. E vicino a lui altri musicisti di livello ultrasonico (Kenny Dorham - tromba, McCoy Tyner - pianoforte, Butch Warren - basso, Pete La Roca - batteria). In particolare, da sottolineare l'immenso lavoro di Pete LaRoca ai tamburi, musicista incredibile e che ha lasciato poco rispetto al suo valore. Fondamentale l'apporto di Kenny Dorham, la cui Blue Bossa, nella quale Henderson dà sfoggio di tutto il suo talento, è diventato uno degli standard più classici del jazz. 



Andrew HILL - Point of departure 

Andrew Hill, pianista maestoso ma molto parco di produzioni, rilascia un vero e proprio capolavoro. Sospeso fra una certa qual classicità e la tendenza avanguardista, questo disco è una serie di composizioni molto complesse sia da un punto di vista armonico sia da un punto di vista ritmico, che solo un combo allucinante come quello raccolto intorno ad Hill poteva sostenere. Qui troviamo infatti Kenny Dorham, Eric Dolphy, Joe Henderson, Richard Davis e Anthony Williams oltre al leader, cioè il più grande gruppo mai riunito in sala di incisione, almeno a mio modesto parere. Anche questo non è un disco semplicissimo e richiede attenzione ma rientra dritto dritto fra gli irrinunciabili. 

Freddie HUBBARD - Open sesame 

Debutto folgorante come leader. Hubbard fra i trombettisti è indiscutibilmente il più funambolico e il più estroverso tecnicamente. E non è un caso che le sue svisate spesso ai limiti dell'estremo tecnico gli abbiano fatto guadagnare un posto nell'ensemble free di Ornette Coleman. Normale allora che intorno a lui ci stia un McCoy Tyner abituato da sempre ad arginare le sfuriate di un certo Coltrane con il suo pianismo dilatato. In questo disco, però, Hubbard riesce comunque a contenersi e ciò giova sicuramente al godimento nell'ascolto. 

Pete LaROCA - Basra 

Tre dischi da leader e non più di una quindicina da sessionman sono pochissimi per un musicista del talento e dell'eccentricità di Pete LaRoca. Il suo stile è uno stile complesso, intricato eppure incredibilmente seducente. Intorno a lui girano Joe Henderson all'alto, Steve Kuhn al piano e 
Steve Swallow al contrabbasso. La versione di Malaguena è una vera e propria ulteriore destrutturazione della modalità, il resto è un crogiuolo di soluzioni ritmiche e armoniche complesse con un Henderson che si cala alla grande nella parte e spadroneggia in lungo ed in largo. Tra i dischi "esoterici", questo è uno di quelli più importanti. 

Hank MOBLEY - Soul station 

Non ho parole per definire la grandezza di Hank Mobley. Sempre considerato un sassofonista di serie B, forse perché non ha avuto il carisma innovativo di un Parker, di un Coltrane, di un Dolphy ma anche di uno Shorter, per me è uno dei più grandi. Il suo fraseggio, sempre melodico, elegante e vicino al canto, è qualcosa di incredibile, in cui la semplicità va di pari passo con l'espressività. Poi Mobley è stato anche (e anche qui troppo sottovalutato) un grandissimo autore, i suoi dischi sono quasi esclusivamente autografi. I suoi dischi dall'esordio su Blue Note a No room for squares sono tutti da avere. Questo Soul station forse è quello che ha qualcosa in più, anche per gli sparring partners Wynton Kelly al piano, Paul Chambers al cb e Art Blakey alla batteria. Uno dei dischi da cui un neofita dovrebbe iniziare per approcciarsi al jazz. 

Lee MORGAN - The sidewinder 

Lo ammetto, ho un debole per Lee Morgan. Il suo lirismo interpretativo, pari a quello di un Chet Baker molto meno depresso o di un Miles Davis nei momenti più raffinati, lo salva anche in quelle (purtroppo tante) registrazioni non all'altezza realizzate più per recuperare i soldi per la droga che per altro. Allo stesso modo la sua figura tragica (finirà ammazzato a colpi di pistola sul palco dalla moglie gelosa) poco si sposa con la musica travolgente che era capace di tirar fuori. Questo Sidewinder, l'unico suo album non discontinuo, è certamente il suo capolavoro. La title track è un brano il cui riff si stampa nel cervello. Il resto è sospeso fra echi rythm'n'blues e latini, con uno sguardo all'hard bop che nel 1964 era già quasi passato di moda. Nel mainstream jazz, senza dubbio uno dei capolavori. 

Bud POWELL - Time waits: The amazing Bud Powell Vol. 4 

Bud Powell è un'altra figura drammatica. Ma stavolta a differenza del caso di Lee Morgan, la drammaticità dell'uomo emerge goccia a goccia dai solchi dei suoi dischi. Pianista particolarissimo e pioniere di una generazione, fu quello che cercò di tradurre i fraseggi fiatistici sulla tastiera. Scelgo questo perché le sue registrazioni in trio sono tutte da lacrime o da applausi, a seconda degli stati d'animo con cui si ascoltano. Sam Jones al basso e Philly Joe Jones alla batteria accompagnano con una maestria le composizioni sofferte di Powell per un disco che definire fondamentale è poco. 

Ike QUEBEC - Blue & Sentimental 

Prendere ciò che è stato detto per il disco di Dexter Gordon, aggiungerci l'apporto di Grant Green e del piano di Sonny Clark. In più shakerare col fraseggio potente di Quebec, in bilico fra il sentimentalismo e il blues, come dice il titolo, ed avrete uno dei più bei compendi di classicità in jazz di sempre. Esercizio di stile? Può essere. Ma chi se ne fotte! Fa godere lo stesso. 

Freddie REDD - Shades of Redd 

Un altro pianista, anche lui molto poco prolifico. Shades of Redd è un disco non da effetti spettacolari ma da sostanza purissima. Il pianismo di Redd è essenziale e misurato, mai appariscente ma perfetto per accompagnare i dialoghi fra il contralto di Jackie McLean ed il tenore di Tina Brooks. Le composizioni, poi, sono un capolavoro di equilibrio che spostano l'hard bop su vie di eleganza e si fanno largo ascolto dopo ascolto. 

Sonny ROLLINS - A night at the Village Vanguads 

Dove sta la grandezza di questo disco? Nel testimoniare la cifra stilistica di uno dei più grandi innovatori della storia del jazz. Questo (doppio, nella ristampa) album è una preziosa immagine della genialità di Rollins che inventa il "piano-less" trio. Fu il primo a togliere il piano e a rendere secchi ed essenziali i propri suoni. E la godibilità ne perde? No. Proprio questo è il punto. Il trio di Rollins, nonostante l'assenza del piano e l'asciuttezza dei suoni è un prodigio di classe e piacevolezza, che si concretizzano nella ripresa di standard dalla resa una migliore dell'altra. Anche questo è un disco da avere. 

Wayne SHORTER - Speak no evil 

Shorter non ha bisogno di presentazioni. Fu il sostituto naturale di Coltrane nel quintetto di Miles Davis e fondò una band seminale come i Weather Report. Serve altro? Sì: serve Speak no evil. Dentro ci sono il funambolico Hubbard alla tromba, qui perfettamente a suo agio nella complessità armonica delle composizioni, ricche di dissonanze tipiche della contemporaneità europea, Hancock al piano, Carter al contrabbasso ed Elvin Jones alla batteria. Disco meditativo, a volte quasi "dark", vicino ad alcune soluzioni di ricerca simili a quelle che lo stesso Shorter stava percorrendo insieme a Davis in lavori come ESP. Disco da ascoltare e riascoltare per entrarci veramente a fondo. 

Horace SILVER - Song for my father 

La title track, messa all'inizio, è senza dubbio il più grande riff della storia del jazz. Anzi, Song for my father sta al jazz come Satisfaction al rock. Intorno ci sono atmosfere vagamente latineggianti (e chi ci troviamo al sax? Il solito Joe Henderson!). Il resto è un disco vivace che si ascolta con grande piacere. Anche qui, il territorio è quello mainstream, però di classe superiore. 

Stanley TURRENTINE - Look out! 

Stanley Turrentine è uno dei sassofonisti dal fraseggio più potente dell'epoca. E questo disco, in cui il quartetto è composto dal leader, da Horace Parlan al piano, Al Harewood alla batteria e George Tucker al contrabbasso, è un bellissimo compendio che unisce composizioni originali di Turrentine (e una di Parlan) a standard. Il fraseggio è molto particolare, brillante e carico da un lato di elementi bop (e non è un caso che venga interpretata Tiny Capers di Clifford Brown) e dall'altro rimandi rythm'n'blues e, qua e là, perfino funky. 

McCoy TYNER - The real McCoy 

Last but not least, l'enorme McCoy Tyner (peraltro, l'ho visto un mese fa a Torino in un concerto che metterei sul podio della vita e alla fine del quale ho anche avuto modo di scambiare qualche parola con questo uomo dalla statura artistica ed umana gigantesca). Ancora una volta a contrappuntare il leader troviamo l'affiatata sezione ritmica Carter al contrabbasso ed Elvin Jones alla batteria e il solito Henderson al sassofono. Tyner è un maestro del piano, il suo stile è improntato su un uso virtuoso dello staccato e sulla ricerca di armonie complesse, che dovevano servirgli ad accompagnare un musicista "irregolare" come Coltrane, dal quale si staccò quando quest'ultimo disse il suo definitivo addio alla tonalità. In questo disco, esordio da leader, affianco alle suggestioni coltraniane troviamo un approccio sporcato da echi etnici (musica asiatica, africana e sudamericana) ed una capacità compositiva totalmente sopra la media. Per me un must.

lunedì 21 gennaio 2013

DYLAN IN VENTI PUNTATE - 5: All Along The Watchtower


ALL ALONG THE WATCHTOWER
Dylan e l'imminenza della Tempesta.

“Dev'esserci qualcuno qua fuori”, disse il Giullare al Ladro. “C'è troppa confusione e non riesco a trovare pace. Uomini d'affari stanno bevendo il mio vino e contadini stanno scavando la mia terra; nessuno di loro, che stanno sul confine, sa quanto vale tutto questo”.

“Non c'è ragione per agitarsi troppo”, rispose gentilmente il ladro. “C'è fin troppa gente che crede che la vita non sia altro che uno scherzo. Ma io e te da qui ci siamo passati e sappiamo che questo è il nostro destino. Non parliamo in maniera falsa: ci resta poco tempo”.

Lungo le torri di guardia prìncipi se ne stavano a guardare mentre intorno andavano e venivano donne e servitori a piedi nudi. Fuori, in lontananza, un puma ringhiò. Due cavalieri si stavano avvicinando. Il vento cominciò ad urlare.

All along the watchtower, probabilmente la canzone più complessa e rappresentativa di Bob Dylan è l'imminenza della battaglia, il presagio della furia del momento, un lampo nell'oscurità. E dire che nel 1968, in mezzo alla confusione sociale che scuote il mondo, abbattendo certezze, fedi, tradizioni, verità, Dylan sembra profetizzare sottovoce. Sembra quasi che non voglia che nessuno senta. “Voce di un uomo che grida nel deserto”, come il profeta Isaia tremila anni prima di lui. La versione che esce su “John Wesley Harding”, considerato non a caso il disco di “parabole” di Dylan, è un sussurro scarno, un sinistro presagio di qualcosa che sta per deflagrare. Del potenziale di questa canzone se ne accorgerà però un nero mancino di sangue Cheerokee di Seattle, tale James Marshall Hendrix. Se la versione di Dylan era un presagio, nella versione Hendrixiana la tensione esplode in un grido di elettricità. Che sarà poi sublimata dalle versioni incendiarie di Neil Young, dei Pearl Jam e dello stesso Dylan che nei suoi concerti degli anni Novanta la trasformerà in una vera e propria tempesta di fuoco.
Sono tre accordi che si ripetono ossessivamente, non più di tre accordi che incidono a fuoco parole di portata quasi biblica. Dylan smette di essere un cantante e veste i panni di Profeta per urlare l'attesa. Il vento porta l'attesa. Il vento urla il dramma dell'uomo. La vita non è uno scherzo, e gli unici a saperlo sono coloro che il Potere ha messo ai margini. Il ladro ed il giullare sono gli uomini ai margini. Il ladro è colui che sta fuori dalla legge e perciò al di sopra della legge. Il giullare è l'unico che può mostrare al Re la sua nudità. Il giullare sta dentro la Verità e perciò è al di sopra della Verità. Sono dentro la vita, dentro alla legge e dentro alla verità, al punto che sono gli unici a capire che “i tempi stanno cambiando” - come già lo stesso Dylan cantava nel 1963 – e che qualcosa si profila all'orizzonte. Eppure gli uomini sulle torri di guardia hanno conosciuto il potere ed hanno scordato il compito delle sentinelle: quello di guardare l'orizzonte e mettere in guardia dal pericolo. Ancora una volta Dylan ha colto nel senno e si è fatto profeta del suo tempo, tremila anni dopo Isaia. “I suoi guardiani sono tutti ciechi, non si accorgono di nulla. Sono tutti cani muti,incapaci di abbaiare; sonnecchiano accovacciati, amano appisolarsi. Ma tali cani avidi, che non sanno saziarsi, sono i pastori incapaci di comprendere.” I principi del mondo della canzone sono gli stessi pastori avidi ed ebbri di donne e di potere. Ai loro schiavi hanno tolto perfino le scarpe.
E così, quando i due cavalieri arriveranno a portare lo scompiglio nel mondo e a rovesciare le carte, troveranno pronti soltanto il Giullare ed il Ladro, gli unici che hanno capito che la vita non è uno scherzo ma una lotta continua.
Ma come si concretizzerà questo presagio? Questo presagio continuerà a tormentare Dylan per tutta la sua vita e, di riflesso, in tutte le sue canzoni. Vent'anni dopo, in un mondo radicalmente mutato, canterà in “Ring them bells” queste parole: “Suona quelle campane, Santa Caterina,dall'alto della stanza, suonale dalla fortezza per i gigli che fioriscono. Oh, le strade sono lunghe e la battaglia e' violenta e stanno cancellando la differenza fra cos'è giusto e cos'è sbagliato.” Eppure le campane di Santa Caterina sono il segno di qualcosa, o qualcuno, che accompagna l'uomo nella lotta. Perché, senza un punto fermo cui guardare nel turbine degli eventi, l'uomo si perde.
È la dinamica della vita. Se l'uomo perde di vista la realtà degli eventi, i segni dei tempi – come il verso di un puma che annuncia che da lontano qualcuno sta arrivando – e soprattutto la contezza del proprio destino, la lotta si trasformerà ben presto in rovinosa sconfitta.
“Nella furia del momento posso vedere la mano del Signore, in ogni foglia che vibra, in ogni granello di sabbia”. Bob Dylan canterà questo verso nel 1981, tredici anni dopo aver fatto uscire All along the watchtower. E tuttavia continuerà a chiudere i suoi concerti con All along the watchtower, sempre in poderose versioni elettriche, fino ai giorni nostri. Ed a profetizzare l'incombenza di una tempesta imminente, di fronte alla quale bisogna essere ben vigili.

lunedì 14 gennaio 2013

DYLAN IN VENTI PUNTATE - 4: Black Diamond Bay


BLACK DIAMOND BAY
Sceneggiatura dall'Apocalisse

Sulla bianca veranda lei indossa una cravatta ed un cappello Panama. Il suo passaporto mostra un viso da un altro tempo e da un altro luogo e lei non vi somiglia per niente e tutti gli avanzi del suo recente passato sono dispersi nel vento tempestoso. Cammina sul pavimento di marmo verso la voce che la chiama dalla sala da gioco, invitandola ad entrare. Lei sorride e va dall'altra parte mentre l'ultima nave salpa e la luna tramonta dalla Black Diamond Bay.
Alle prime luci dell'alba arriva il Greco e chiede una corda ed una penna che scriva. "Pardon, monsieur - dice l'impiegato togliendosi con cura il fez - Ho sentito bene?" e mentre si alza una nebbia giallastra il Greco sale velocemente al secondo piano. Lei gli passa davanti sulla scala a chiocciola scambiandolo per l'ambasciatore sovietico. Inizia a parlare ma lui passa oltre mentre nubi tempestose si ammassano e le palme ondeggiano su Black Diamond Bay.
Un soldato siede vicino al ventilatore e contratta con un piccoletto che gli vende un anello. Il fulmine colpisce, le luci si spengono. L'impiegato si sveglia e comincia a gridare: "Qualcuno vede qualcosa?" Poi il Greco appare al secondo piano a piedi nudi con una corda intorno al collo mentre un perdente nella sala da gioco accende una candela e dice "Apra un altro mazzo".
Ma il croupier dice "Attendez-vous, s'il vous plait!" mentre la pioggia batte e le gru volano via da Black Diamond Bay.
L'impiegato sentì la donna ridere mentre guardava in giro le conseguenze e il soldato ci andava pesante. Provò a prendere la mano della donna dicendo "Ecco un anello, costa una fortuna!". Lei disse "Non basta" poi corse di sopra a fare i bagagli mentre un taxi tirato da cavalli aspettava alla curva. Lei superò la porta che il Greco aveva chiuso a chiave, sulla quale un cartello scritto a mano recitava "Non disturbare". Lei bussò ugualmente mentre il sole tramontava e la musica suonava su Black Diamond Bay
"Devo immediatamente parlare con qualcuno!" Ma il Greco disse: "Và via!" e diede un calcio alla sedia, rovesciandola sul pavimento. Restò lì, appeso al lampadario. Lei gridò "Aiuto! C'è un'emergenza! Per favore aprite la porta!" Poi il vulcano eruttò e la lava tracimò dalla parte alta della montagna verso valle. Il soldato ed il piccoletto si rannicchiarono in un angolo pensando ad un amore proibito. Ma l'impiegato disse "Succede tutti i giorni!" mentre i lapilli venivano giù ed i campi bruciavano su Black Diamond Bay.
Mentre l'isola lentamente affondava il perdente finalmente fece saltare il banco nella sala da gioco.
Il croupier disse "E' troppo tardi ormai. Puoi prenderti il tuo denaro ma non so come lo spenderai in una tomba!" Il piccoletto morse l'orecchio del soldato mentre il pavimento crollava e la caldaia nella cantina esplodeva. Intanto lei è sulla balconata dove uno straniero le dice:"My darling, je vous aime beaucoup". Le scende una lacrima e poi comincia a pregare mentre il fuoco divampa ed il fumo si alza dalla Black Diamond Bay.
Me ne stavo seduto da solo a casa mia una notte a Los Angeles guardando il vecchio Cronkite al notiziario delle sette. Sembra che ci sia stato un terremoto che non ha lasciato nient'altro che un cappello Panama ed un paio di vecchie scarpe greche. Sembra che non sia successo granché,  così ho spento e mi sono andato a fare un'altra birra. Sembra che ogni volta che ti guardi intorno tu debba sentire un'altra storia assurda e non c'è veramente nessuno che possa dire niente. E comunque io non ho mai pensato di andarci, a Black Diamond Bay.

C'era un vecchio libro di Joseph Conrad. Si chiamava, se non ricordo male, Vittoria o qualcosa del genere. Raccontava una storia simile, di due tizi che si ritrovano su un'isola abitata solo da individui che a definirli loschi era dire poco. Quel luogo si chiamava appunto Black Diamond Bay. La baia del diamante nero. Quei due, Bob e Jacques si ricordavano vagamente del suo contenuto. Ma qualcosa gli era dovuto rimanere in mente, con tutta probabilità. Così si ritrovarono a scrivere una nuova storia, che poteva essere la scenografia di un film. Chissà, il Greco avrebbe potuto avere la faccia dura dagli occhi persi di Humphrey Bogart. E lei, chi è lei? Quei due, il Greco e lei sembrano arrivati al termine della propria strada. Lei, probabilmente abbandonata da qualcuno. Più probabilmente abbandonata da se stessa. Lui, chissà cosa ha passato. Probabilmente ha dato fastidio a qualcuno. Più probabilmente ha dato fastidio a se stesso. Così, lui chiede una corda. Sì, una corda. Lei non chiede più niente, invece, inchiodata com'è al proprio passato. Passato che non si conosce ma, certo, si intuisce.
Intorno, tutto sembra procedere nel disordine della normalità. C'è la solita gente ai tavoli da gioco, la solita gente con ghigne da perdenti e fiele nelle vene. Loro, a differenza di lei e del Greco, non si chiedono più nulla. Ma, nel turbine degli eventi, qualcosa sconvolge il corso degli eventi. Un fulmine. Il buio. Gente che grida. Nel frattempo, un soldato prova a regalarle un anello. Ma a lei non importa nulla. Non le importa più nulla. Ha puntato il Greco. Probabilmente lo ha scambiato per uno importante, forse un ambasciatore. Mi potrà far tornare a casa? Mi spazzerà via da questo cerchio che mi stringe la gola? Ma la gola del Greco ormai è già stretta dalla corda. Lui ha altro per la testa, ora.
A sconvolgere i piani di tutti arriva l'Apocalisse. Il vulcano, è il vulcano che si è risvegliato e sta portando via tutto ciò che sta attorno. Anche i piani del Greco, che pensava di poter fare tutto da sé. Il disordine della normalità si spezza. Il perdente fa saltare il banco, ma è troppo tardi, perché tutto sta andando ormai fuori controllo. Anche il violino pare incrinarsi, nel momento dell'Esplosione Suprema.
Cosa resta delle loro storie? Resta un avviso al telegiornale, con il vecchio Walter Cronkite, “l'uomo più creduto d'America”, che dà freddamente la notizia al telegiornale delle sette. E di quelle storie, cosa ne sappiamo noi? Cosa resta? Non lo so, non lo sappiamo. Comunque, io non ci volevo andare nemmeno, a Black Diamond Bay.