Nel
2003 ero poco più di un ragazzino. Avevo 18 anni, stavo finendo il
liceo e la mia vita gravitava intorno ad un piccolo negozio di dischi
che si chiamava “Torno subito”, in una viuzza non troppo in vista
nel quartiere di San Salvario. Era un negozio strano, con il soffitto
basso e le luci quasi sempre soffuse. Sul bancone, pile di cd da
riordinare e da inserire nei contenitori a scorrimento di metallo, di
quelli che si vedevano una volta nei negozi di dischi. Lì affianco
c'era un ristorante minuscolo, che si chiamava “Cardo gobbo”, uno
dei pochi posti dove il proprietario, che era anche cuoco insieme a
sua madre, tirava ancora la pasta a mano. Sembrava un angolo di
un'altra epoca.
Una
volta, “Torno subito” era uno di quei posti dove si potevano
noleggiare i dischi. Non ne esistono più, adesso. Ormai non esistono
quasi più nemmeno i negozi di dischi.
Il
proprietario era Pierino, un personaggio strano, una specie di
anarchico bohemien. Quando l'ho incontrato la prima volta aveva i
capelli lunghi, gli occhiali con le lenti gialle che non si toglieva
mai e suonava la chitarra in una strampalata band che reinterpretava
i pezzi di Rino Gaetano in chiave quasi etnica o jazz. Uno dei
chitarristi migliori che io abbia mai incontrato.

Soprattutto,
nel negozio di Pierino si ascoltava. E si ascoltava tanto. Ci passavo
tutti i giorni, tornando a casa da scuola o, nei primi due anni di
università, da casa di mia nonna. Almeno un'ora. Spesso molto di
più. E lì dentro non si ascoltava mai a caso. Passava di tutto, dal
rock duro al jazz, senza alcuna preclusione di sorta. Pierino non si
limitava a farti ascoltare, però. Ti spiegava tutto, per filo e per
segno: “Ascolta questo passaggio”. E poi: “Senti come Tony
Williams cambia la scansione sui piatti in ogni battuta”. E poi:
“Senti come quel chitarrista accompagna il cantante e si fonde le
parole”.

A
Pierino devo la mia quasi totale formazione musicale. Ricordo quando
gli dissi che non capivo il jazz. È
stato tutto il pomeriggio a spiegarmi come ascoltarlo. E sono uscito
di là con in tasca “Ascenseur pour l'echaffeaud” e “Miles
Smiles” di Miles Davis e “My favourite things” di Coltrane.
A
lui devo la scoperta di Lalli. Arrivò prima il mini “Tra le dune
di qui” e fu un colpo basso. Poi mi fece scoprire “All'improvviso
nella mia stanza” e fu un colpo altrettanto basso ma ancora più
forte. Andammo anche a sentirla insieme, nel 2004 a Maison Musique.
Il più bel concerto della mia vita. E lui che a un certo punto, come
faceva di solito, mi richiama e mi dice “Ascoltiamo Giorgio”,
mentre il trombettista Giorgio Li Calzi prendeva un interminabile
solo in “La fiaba di Nushe”.

Quel
posto aveva un che di sacrale. Dentro il negozio di Pierino il
rispetto per la forza e per la rilevanza della musica “leggera”
era qualcosa di palpabile, di inconfondibile. E ogni volta che metto
su uno di quei dischi – come stasera, che nelle casse suona proprio
“Tiny voices” - mi viene in mente quel posto.
Il
negozio di Pierino ora non c'è più, e non c'è più neanche il
ristorante lì affianco. Al loro posto c'è una pizzeria che ha già
chiuso e riaperto un paio di volte. Pierino ha mollato tutto e se ne
è andato in Sud America. Poi è ritornato a Torino e ha aperto un
bar. Da allora l'ho rivisto solo un paio di volte. Eppure, ancora
oggi, penso di aver incontrato pochi maestri come lui.