giovedì 30 maggio 2013

25 dischi jazz dalla Blue Note aka Il rincoglionimento senile.

Per gioco e per rispondere alla richiesta di un amico, visto il mio annunciato rincoglionimento senile che si manifesta con la crescita esponenziale degli ascolti jazz, ecco venticinque dischi imperdibili e forse nemmeno troppo noti che tutti dovrebbero avere in casa e che si potrebbero consigliare tranquillamente ad un neofita che di jazz non capisce nulla. Siamo in ambito Blue Note, la più grande etichetta a cavallo fra gli anni '60 e '70...di più non dico perché non ho né tempo né voglia. Buon ascolto a chi vorrà cimentarsi!


"Cannonball" ADDERLEY - Somethin' else 

Che dire di questo disco, a parte tutto il bene possibile? Un mood molto molto delicato, un personale strepitoso (Adderley al sax, Miles Davis alla tromba, Hank Jones al piano, Sam Jones al contrabbasso e il grande Art Blakey alla batteria), una rilettura di Autumn leaves da brividi lungo la schiena. Disco a mio avviso fondamentale. 

Art BLAKEY - Moanin' 

Siamo in un ambito mainstream, in cui il jazz di Blakey non ha ancora quella connotazione spiccatamente sociale di dischi come Free for alll!, eppure siamo in un campo in cui il jazz si sporca (insolitamente, almeno per l'epoca, considerando che siamo nel 1958) di soul e se vogliamo anche di gospel. Il personale (Lee Morgan - tromba, Benny Golson - sax tenore, Bobby Timmons - pianoforte, Jimmy Merritt - contrabbasso, Art Blakey - batteria) è anche qui di altissimo livello, con un Lee Morgan che tocca alcune delle sue vette espressive assolute. 

Donald BYRD - Byrd in hand 

Se si cerca un bignami dell'hard bop, questo potrebbe essere un compendio ideale. Byrd esplosivo alla tromba, Charlie Rouse (con Monk nei suoi album migliori) grande al sax. Musica energica, decisamente incardinata in un'epoca specifica del jazz, eppure che suona entusiasmante ancora oggi. Occhio solo al combo un po' più allargato dei dischi sopra elencati (ma analogo ad un disco come Kind of blue, a livello di pezzi sonori). 

Paul CHAMBERS - Bass on top 

Riporto da sopra: qui siamo in ambito blue note, profondamente mainstream. Eppure, questo disco, composto prevalentemente da standards, si fa ascoltare tutto d'un fiato, soprattutto per i meriti dello straordinario Hank Jones al pianoforte. Nonostante il combo ristrettissimo (Paul Chambers - contrabbasso, Hank Jones - piano, Kenny Burrell - chitarra, Art Taylor - batteria), il disco è tutt'altro che noioso. Il sottoscritto, che peraltro non ama per niente la chitarra nel jazz, trova che il lavoro di Kenny Burrell, delicatissimo e mai fuori le righe, sia semplicemente eccelso. 

Sonny CLARK - Cool struttin' 

Il pianista Clark ruba la sezione ritmica (Paul Chambers & Philly Joe Jones) al Maestro Davis e gli ruba anche una composizione per un disco dove la coralità del tutto riesce perfino a smorzare un Jackie McLean (alto sax) che, a dispetto della sua torrenzialità, qui pare insolitamente misurato. Il resto lo fa l'abilità del leader, che riesce a torcere il blues e a renderlo personalissimo. 

Eric DOLPHY - Out to lunch! 

Pochi cazzi, questo è uno dei capolavori di ogni tempo. Non è un disco facile, richiede impegno, si sporge verso ricerche estreme e verso terre free eppure alla fine entra nelle ossa. Eric Dolphy è stato uno dei più grandi di sempre, grande al sax, che suonava con uno stile violento ed irruente, enorme al clarinetto basso, immenso al flauto traverso. In questo disco, il suo testamento ma al contempo abbastanza agevole da approcciare rispetto ad altri suoi lavori - soprattutto dal vivo - dello stesso periodo, lo accompagnano dei fuoriclasse assoluti (Freddie Hubbard — tromba, Bobby Hutcherson — vibrafono,Richard Davis — contrabbasso, Tony Williams — batteria). La title track è una delle vette di ogni tempo. 

Lou DONALDSON - Gravy train 

Qualcuno potrebbe storcere il naso nel leggere questo titolo fra i fondamentali. Lo giustifico subito, per me questo disco è divertimento allo stato puro. That's enterteinment! Costruito sapientemente fra standard pochissimo jazz (Alebsp che è "diversamente giovane" si dovrebbe ricordare di South of the border, conosciuta in Italia come "Stella d'argento"...) e brani originali di Donaldson, ha in più un tocco latino dato dalle congas di Alec Dorsey difficilmente rintracciabile nei dischi del periodo. 

Kenny DORHAM - Whistle stop 

Ingiustamente sottovalutato, Kenny Dorham è uno dei migliori trombettisti di sempre. Il suo stile è nervoso eppure melodico allo stesso tempo. Solitamente il suo capolavoro è considerato Una mas (consigliatissimo anch'esso, con Joe Henderson, Tony Williams ed Herbie Hancock), ma io gli preferisco questo, non foss'altro per uno sforzo compositivo enorme e per la presenza di un sassofonista che amo moltissimo, Hank Mobley, oltre alla "solita" coppia ritmica Paul Chambers/Philly Joe Jones di cui già ho detto in precedenza. Inoltre, i pezzi sono medio//brevi, cosa che giova alla grande all'immensa godibilità di questo disco. 

Dexter GORDON - Our man in Paris 

Va bene, è un disco di standard. Ma sono standard suonati con un piglio tra l'estrema delicatezza ed il divertimento più assoluto. Anche questo è un disco "di intrattenimento", eppure funziona, viaggia come un treno, grazie alla linearità di Gordon al sax e all'enorme apporto di un Bud Powell strepitoso al pianoforte. Un perfetto "party record". 

Grant GREEN - Idle moments 

Pur non amando i chitarristi, questo disco è FANTASTICO. Perché? Perché c'è Joe Henderson al sax. Perché c'è Bobby Hutcherson al vibrafono. E soprattutto perché Grant Green è un chitarrista geniale. Ok, c'è del blues (ma il blues interpretato dai jazzisti è tutta un'altra cosa) ma c'è soprattutto un musicista che usa la chitarra come una tavolozza dove gli accordi aperti sono colori tenui ed evocativi e dove il solismo non è mai esasperato e soprattutto è sempre improntato alla ricerca della melodia sopra tutte le altre cose. La title track, composta dal pianista Duke Pearson, è qualcosa di celestiale. 

Herbie HANCOCK - Maiden voyage 

Perché questo e non Empyrean isle? O non Takin' off? Non lo so. Perché mi piace di più... La line up è la line up di base del quintetto davisiano periodo Seven steps, con Tony Williams alla batteria, Ron Carter al basso e lo stesso leader al piano, cui si affiancano Freddie Hubbard alla tromba e George Coleman al sax. Il risultato è un disco scoppiettante, dove la modalità si incontra coll'hard-bop, col funk e con atmosfere vagamente caraibiche. Disco imperdibile. 

Joe HENDERSON - Page one 

Altro disco fondamentale dei fondamentali. Henderson è un sassofonista stellare, pioniere di sperimentazioni in chiave jazz-funk e musicista sempre fuori dalle righe. E vicino a lui altri musicisti di livello ultrasonico (Kenny Dorham - tromba, McCoy Tyner - pianoforte, Butch Warren - basso, Pete La Roca - batteria). In particolare, da sottolineare l'immenso lavoro di Pete LaRoca ai tamburi, musicista incredibile e che ha lasciato poco rispetto al suo valore. Fondamentale l'apporto di Kenny Dorham, la cui Blue Bossa, nella quale Henderson dà sfoggio di tutto il suo talento, è diventato uno degli standard più classici del jazz. 



Andrew HILL - Point of departure 

Andrew Hill, pianista maestoso ma molto parco di produzioni, rilascia un vero e proprio capolavoro. Sospeso fra una certa qual classicità e la tendenza avanguardista, questo disco è una serie di composizioni molto complesse sia da un punto di vista armonico sia da un punto di vista ritmico, che solo un combo allucinante come quello raccolto intorno ad Hill poteva sostenere. Qui troviamo infatti Kenny Dorham, Eric Dolphy, Joe Henderson, Richard Davis e Anthony Williams oltre al leader, cioè il più grande gruppo mai riunito in sala di incisione, almeno a mio modesto parere. Anche questo non è un disco semplicissimo e richiede attenzione ma rientra dritto dritto fra gli irrinunciabili. 

Freddie HUBBARD - Open sesame 

Debutto folgorante come leader. Hubbard fra i trombettisti è indiscutibilmente il più funambolico e il più estroverso tecnicamente. E non è un caso che le sue svisate spesso ai limiti dell'estremo tecnico gli abbiano fatto guadagnare un posto nell'ensemble free di Ornette Coleman. Normale allora che intorno a lui ci stia un McCoy Tyner abituato da sempre ad arginare le sfuriate di un certo Coltrane con il suo pianismo dilatato. In questo disco, però, Hubbard riesce comunque a contenersi e ciò giova sicuramente al godimento nell'ascolto. 

Pete LaROCA - Basra 

Tre dischi da leader e non più di una quindicina da sessionman sono pochissimi per un musicista del talento e dell'eccentricità di Pete LaRoca. Il suo stile è uno stile complesso, intricato eppure incredibilmente seducente. Intorno a lui girano Joe Henderson all'alto, Steve Kuhn al piano e 
Steve Swallow al contrabbasso. La versione di Malaguena è una vera e propria ulteriore destrutturazione della modalità, il resto è un crogiuolo di soluzioni ritmiche e armoniche complesse con un Henderson che si cala alla grande nella parte e spadroneggia in lungo ed in largo. Tra i dischi "esoterici", questo è uno di quelli più importanti. 

Hank MOBLEY - Soul station 

Non ho parole per definire la grandezza di Hank Mobley. Sempre considerato un sassofonista di serie B, forse perché non ha avuto il carisma innovativo di un Parker, di un Coltrane, di un Dolphy ma anche di uno Shorter, per me è uno dei più grandi. Il suo fraseggio, sempre melodico, elegante e vicino al canto, è qualcosa di incredibile, in cui la semplicità va di pari passo con l'espressività. Poi Mobley è stato anche (e anche qui troppo sottovalutato) un grandissimo autore, i suoi dischi sono quasi esclusivamente autografi. I suoi dischi dall'esordio su Blue Note a No room for squares sono tutti da avere. Questo Soul station forse è quello che ha qualcosa in più, anche per gli sparring partners Wynton Kelly al piano, Paul Chambers al cb e Art Blakey alla batteria. Uno dei dischi da cui un neofita dovrebbe iniziare per approcciarsi al jazz. 

Lee MORGAN - The sidewinder 

Lo ammetto, ho un debole per Lee Morgan. Il suo lirismo interpretativo, pari a quello di un Chet Baker molto meno depresso o di un Miles Davis nei momenti più raffinati, lo salva anche in quelle (purtroppo tante) registrazioni non all'altezza realizzate più per recuperare i soldi per la droga che per altro. Allo stesso modo la sua figura tragica (finirà ammazzato a colpi di pistola sul palco dalla moglie gelosa) poco si sposa con la musica travolgente che era capace di tirar fuori. Questo Sidewinder, l'unico suo album non discontinuo, è certamente il suo capolavoro. La title track è un brano il cui riff si stampa nel cervello. Il resto è sospeso fra echi rythm'n'blues e latini, con uno sguardo all'hard bop che nel 1964 era già quasi passato di moda. Nel mainstream jazz, senza dubbio uno dei capolavori. 

Bud POWELL - Time waits: The amazing Bud Powell Vol. 4 

Bud Powell è un'altra figura drammatica. Ma stavolta a differenza del caso di Lee Morgan, la drammaticità dell'uomo emerge goccia a goccia dai solchi dei suoi dischi. Pianista particolarissimo e pioniere di una generazione, fu quello che cercò di tradurre i fraseggi fiatistici sulla tastiera. Scelgo questo perché le sue registrazioni in trio sono tutte da lacrime o da applausi, a seconda degli stati d'animo con cui si ascoltano. Sam Jones al basso e Philly Joe Jones alla batteria accompagnano con una maestria le composizioni sofferte di Powell per un disco che definire fondamentale è poco. 

Ike QUEBEC - Blue & Sentimental 

Prendere ciò che è stato detto per il disco di Dexter Gordon, aggiungerci l'apporto di Grant Green e del piano di Sonny Clark. In più shakerare col fraseggio potente di Quebec, in bilico fra il sentimentalismo e il blues, come dice il titolo, ed avrete uno dei più bei compendi di classicità in jazz di sempre. Esercizio di stile? Può essere. Ma chi se ne fotte! Fa godere lo stesso. 

Freddie REDD - Shades of Redd 

Un altro pianista, anche lui molto poco prolifico. Shades of Redd è un disco non da effetti spettacolari ma da sostanza purissima. Il pianismo di Redd è essenziale e misurato, mai appariscente ma perfetto per accompagnare i dialoghi fra il contralto di Jackie McLean ed il tenore di Tina Brooks. Le composizioni, poi, sono un capolavoro di equilibrio che spostano l'hard bop su vie di eleganza e si fanno largo ascolto dopo ascolto. 

Sonny ROLLINS - A night at the Village Vanguads 

Dove sta la grandezza di questo disco? Nel testimoniare la cifra stilistica di uno dei più grandi innovatori della storia del jazz. Questo (doppio, nella ristampa) album è una preziosa immagine della genialità di Rollins che inventa il "piano-less" trio. Fu il primo a togliere il piano e a rendere secchi ed essenziali i propri suoni. E la godibilità ne perde? No. Proprio questo è il punto. Il trio di Rollins, nonostante l'assenza del piano e l'asciuttezza dei suoni è un prodigio di classe e piacevolezza, che si concretizzano nella ripresa di standard dalla resa una migliore dell'altra. Anche questo è un disco da avere. 

Wayne SHORTER - Speak no evil 

Shorter non ha bisogno di presentazioni. Fu il sostituto naturale di Coltrane nel quintetto di Miles Davis e fondò una band seminale come i Weather Report. Serve altro? Sì: serve Speak no evil. Dentro ci sono il funambolico Hubbard alla tromba, qui perfettamente a suo agio nella complessità armonica delle composizioni, ricche di dissonanze tipiche della contemporaneità europea, Hancock al piano, Carter al contrabbasso ed Elvin Jones alla batteria. Disco meditativo, a volte quasi "dark", vicino ad alcune soluzioni di ricerca simili a quelle che lo stesso Shorter stava percorrendo insieme a Davis in lavori come ESP. Disco da ascoltare e riascoltare per entrarci veramente a fondo. 

Horace SILVER - Song for my father 

La title track, messa all'inizio, è senza dubbio il più grande riff della storia del jazz. Anzi, Song for my father sta al jazz come Satisfaction al rock. Intorno ci sono atmosfere vagamente latineggianti (e chi ci troviamo al sax? Il solito Joe Henderson!). Il resto è un disco vivace che si ascolta con grande piacere. Anche qui, il territorio è quello mainstream, però di classe superiore. 

Stanley TURRENTINE - Look out! 

Stanley Turrentine è uno dei sassofonisti dal fraseggio più potente dell'epoca. E questo disco, in cui il quartetto è composto dal leader, da Horace Parlan al piano, Al Harewood alla batteria e George Tucker al contrabbasso, è un bellissimo compendio che unisce composizioni originali di Turrentine (e una di Parlan) a standard. Il fraseggio è molto particolare, brillante e carico da un lato di elementi bop (e non è un caso che venga interpretata Tiny Capers di Clifford Brown) e dall'altro rimandi rythm'n'blues e, qua e là, perfino funky. 

McCoy TYNER - The real McCoy 

Last but not least, l'enorme McCoy Tyner (peraltro, l'ho visto un mese fa a Torino in un concerto che metterei sul podio della vita e alla fine del quale ho anche avuto modo di scambiare qualche parola con questo uomo dalla statura artistica ed umana gigantesca). Ancora una volta a contrappuntare il leader troviamo l'affiatata sezione ritmica Carter al contrabbasso ed Elvin Jones alla batteria e il solito Henderson al sassofono. Tyner è un maestro del piano, il suo stile è improntato su un uso virtuoso dello staccato e sulla ricerca di armonie complesse, che dovevano servirgli ad accompagnare un musicista "irregolare" come Coltrane, dal quale si staccò quando quest'ultimo disse il suo definitivo addio alla tonalità. In questo disco, esordio da leader, affianco alle suggestioni coltraniane troviamo un approccio sporcato da echi etnici (musica asiatica, africana e sudamericana) ed una capacità compositiva totalmente sopra la media. Per me un must.