venerdì 29 novembre 2013

BLACK SHEEP BOYS – Un percorso attraverso i sentieri oscuri del cantautorato americano.

UNA PICCOLA INTRODUZIONE

In principio era il folk revival. La rinascita del folk aveva casa in New York, Greenwich Village, là dove chiunque con una chitarra poteva sperare di cambiare il mondo. La politica e la musica si mischiavano ed ogni giorno arrivavano nuovi aspiranti folk singer giunti dai quattro angoli della terra promessa chiamata America, tutti con la propria chitarra acustica in mano, di soldi in tasca niente e, il più delle volte con un talento più da “giornalisti” che da cantanti.


1. FRED NEIL, L'UOMO DALLE OMBRE NEGLI OCCHI

Tra di loro ce n’era uno in particolare che su tutti metteva soggezione ed incuteva timore già solo per l’aspetto altero. No, non si parla di quel ragazzetto paffutello e imberbe che di lì a poco sarebbe diventato Bob Dylan. Lui era Fred Neil e veniva dalla Florida, nonostante la sua proverbiale ombrosità facesse a pugni con la solarità dei suoi luoghi natali.
Racconta Bob Dylan nel suo Chronicles – Volume 1, fedele racconto di quei primissimi anni Sessanta, che Fred Neil era capace di tenere in pugno il pubblico soltanto con uno sguardo, tanto la sua presenza era magnetica e carismatica. Neil non era un folk singer come tutti gli altri. Conosceva il jazz e il blues a menadito e aveva nelle sue liriche una forza visionaria che i più si potevano soltanto sognare.
La sua musica aveva ben poco da spartire con quella dei tanti emuli di Woody Guthrie. Lui la tradizione la conosceva meglio di tutti e per questo poteva permettersi di tradirla come e quando voleva. Così quando nel 1966 diede alle stampe il suo terzo album, intitolato semplicemente col suo nome, segnò una svolta nella storia della musica americana. Se ne accorsero in pochi, in realtà. Quel disco dalla copertina scura – una foto in bianco e nero dell’autore insieme al figlio su campo nero – avrebbe lasciato una traccia molto più profonda e significativa del numero delle copie vendute.
L’anno prima era uscito il primo disco completamente a suo nome, dopo un album a due con il folk singer Vince Martin. La copertina di quel suo primo disco era il simbolo di una generazione, al pari di quella di The freewheelin’ Bob Dylan. Lui lì, in piedi in mezzo alla strada, in un incrocio notturno di strade, col blu fondo della notte tagliato in due dalle insegne dei locali di New York, dove pulsava l’anima di una generazione. Quel suo primo disco era un incrocio di folk e blues, con i primi accenti elettrici che lampeggiavano vivi nei solchi e, su tutto, una voce baritonale a guidare il tutto.
Ma fu proprio con quel disco omonimo che Neil segnò la storia del cantautorato americano. Una chitarra carica di riverbero, che metteva in musica lo sciacquio delle onde del mare, segnava il preludio di uno dei momenti più alti mai ascoltati su disco. The dolphins era messa lì in apertura del suo omonimo album. Difficile definire quella canzone. Non era un brano folk. Era qualcosa di diverso e profondamente nuovo. Un pezzo che sembrava arrivare da chissà dove, da oltre la linea dell’orizzonte, un pezzo di vele e di vento, di sciabordare del mare, di echi lontani ed indefinibili.
C’erano poi brani dall’eco più blues, a significare l’anima tradizionalista di Neil. C’era un bislacco pezzo psichedelico di otto minuti dal titolo impronunciabile (Cynicrustpetefredjohn Raga) che sembra più uno scherzo che altro. Ma, soprattutto, c’erano tre brani che avrebbero influenzato una generazione di autori e cantanti.
Faretheewell (Fred’s tune) altro non è che una ripresa di un noto tema folk – Dink’s song – ma rallentato all’inverosimile e tutto sospeso fra gli scuri vibrati del canto di Neil ed arpeggi appena impercettibili di chitarra. Non c’è alcuno schema. L’accompagnamento musicale viene dilatato e staccato dalla linea della melodia tracciata da Neil, che pare sospesa per aria, oscura ed eterea allo stesso tempo. Green rocky road è un tempo a ¾ dall’andamento jazzato, dove ancora una volta la voce viaggia libera, divincolandosi dalle strette briglie dell’accompagnamento.
E poi c’è Everybody’s talking, la canzone che quasi tutti conoscono per la cover che ne fece Harry Nilsson nella colonna sonora di “Un uomo da marciapiede”. La versione del suo autore è però più meditabonda e allo stesso tempo inquieta. Ascoltandola, sembra proprio di vedere le ombre degli occhi della gente di cui parla il testo. “Non lascerò che tu ti lasci alle spalle il mio amore, no, non lo permetterò”. Mai vi è stata una canzone capace di condensare il rimpianto in così pochi versi. Everybody’s talking fu l’unico successo di Fred Neil (sebbene come autore e non come interprete). Di questo disco, il pubblico non se ne accorse quasi per nulla. D’altronde, il suo fascino era un fascino nascosto, segreto, lontano degli sfarzi del mondo pop ma anche dalle nuove ondate musicali che attraversavano l’America da costa a costa e che avrebbero portato di lì a poco ad una lunga ed effimera estate dell’amore.
Neil non si curava di tutto ciò che gli stava intorno e poco a poco finì per perdere interesse per la musica. Dopo il suo album omonimo, Neil non registrerà più nulla in studio, limitandosi in rarissime occasioni ad esibirsi dal vivo, per platee composte più che altro da vecchi amici, ad interrompere sporadicamente un silenzio trentennale, durato sino alla morte, giunta nel 2001.

Eppure, forse non se n’era neppure accorto, ma Fred Neil aveva aperto un sentiero che molti altri, nel futuro più o meno lontano, avrebbero percorso.

2. TIM HARDIN, LA PECORA NERA

Erano in tanti, in quei primi anni Sessanta, a frequentare quelle stesse tavole di quegli stessi locali di New York dove Fred Neil dava lezioni a tutti, Bob Dylan compreso. Erano in tanti ma i più restavano anonimi raschia-chitarre in fuga dalla vita vera, gente senza talento che la macina del tempo avrebbe frantumato e consegnato alle muffe del dimenticatoio. Ce n’era uno, però, che non poteva passare inosservato.
Diceva di essere un pronipote del bandito John Wesley Hardin, uno dei fuorilegge simbolo d’America, un emblema degli eterni desperados che vagavano gli Stati Uniti soffiando sul fuoco della controcultura (e che da quello stesso fuoco sarebbero rimasti bruciati). Già questo bastava per renderlo diverso da tutti. In più era stato nel corpo dei marines, spedito a diciotto anni a marciare fra le paludi dell’Indocina, fra Laos, Cambogia e Viet Nam, a preparare il terreno alla follia della guerra più lunga e più assurda dalla resa del 15 agosto 1945. Laggiù, fra una tappa forzata e l’altra, tra acquitrini e durezze assortite della vita militare, avrebbe scoperto un nemico con cui combattere tutta la vita. Un nemico più bastardo delle Sirene di Ulisse: l’eroina. Poteva essere lui il Sam Stone qualsiasi cantato pochi anni dopo da John Prine, nel suo inno malinconico dedicato ai reduci che tornavano imbottiti di sostanze chimiche, unico viatico per reggere le pressioni e gli sconvolgimenti psicologici causati dalla “sporca guerra”.
Ma, allo stesso tempo, nelle sere afose passate all’addiaccio aveva imparato a suonare la chitarra, proprio come Johnny Cash durante il suo periodo di ferma in Germania ed aveva scoperto una vocazione da narratore ed era stato folgorato dalle storie oscure dei vecchi blues.
Così, non appena tornato in America, all’inizio degli anni Sessanta, il passo per giungere al Greenwich Village fu breve. Là si iscrive all’Accademia di arte drammatica newyorchese ma durerà ben poco. I ritmi e gli impegni che gli studi richiedono non si conciliano con una vita sregolata e notturna, in cui l’alba sorprende Tim ogni mattina in un locale diverso.
Però qualcosa si muove. Hardin ha trovato un amico che se lo è preso sotto a cuore. Quell’amico è proprio Fred Neil, l’austero Fred Neil, che ne aveva intuito prima di tutti il talento e sapeva che i pericoli per Tim non arrivavano dalla concorrenza degli altri folk singer ma dai suoi stessi demoni che lo rodevano dall’interno. Di lui si era accorta anche la Columbia, che dopo Bob Dylan cercava di mettere a segno il suo secondo colpo nel mondo del folk revival. Ma ben presto si accorse che da quel cantautore poteva cavarci ben poco. Non aveva la visionarietà di Bob Dylan né una visione politica articolata come Phil Ochs. Non aveva neppure un aspetto particolarmente affascinante o magnetico. E soprattutto, la sua musica suonava troppo cupa e riflessiva, troppo ripiegata a scavare nelle proprie inquietudini. Un po’ troppo inaccessibile, in un epoca di acceso “positivismo musicale”. Gli spari di Dallas non avevano ancora raggiunto il cuore dell’America e in mezzo a tutta quella gente impegnata a cambiare il mondo Hardin sembrava un vero e proprio fantasma.
Quelli della Columbia non ci misero molto a scaricarlo senza grossi rimpianti, nonostante i buoni uffici sui quali Hardin poteva contare fra i colleghi. Aveva registrato alcuni demo con un piglio folk-blues (fra cui, guarda caso, una Blues on the ceiling scritta proprio da Neil) ma senza alcun esito vero. Sarebbero stati riesumati qualche anno dopo, neppure allora con grosso successo.
Gli schiaffi subiti a New York segnarono ulteriormente un animo già inquieto e pronto a rifugiarsi nella bottiglia per sfuggire alla dura realtà dei fatti. Così, sdegnato di tutto, Tim fece i bagagli ed attraversò l’America, destinazione California, per provare a far ripartire la propria vita e la propria carriera. Incontrò Susan Yardley, un’attricetta da soap opera, e la sposò quasi subito, facendone la sua musa ispiratrice. E subito sgorgarono le canzoni. Una più bella dell’altra: Reason to believe, It’ll never happen again, Part of the wind, Misty roses, If I were a carpenter, You upset the grace of living when you lie e The lady came from Baltimore (a parere – molto parziale – di chi scrive, la più bella canzone mai scritta) si stagliavano su tutte. Di fronte ad un tale stato di grazia compositiva, Hardin rimediò un nuovo contratto, questa volta con la Verve Forecast. Prese Susan, nel frattempo rimasta incinta, e saltò di nuovo ad Est, stabilendosi nei pressi di New York.
Tra il 1966 ed il 1967 uscirono i suoi due primi veri album, intitolati semplicemente Tim Hardin e Tim Hardin 2. Le canzoni erano in gran parte dei sognanti bozzetti folk con vaghe ascendenze jazz, malinconiche, concise e dirette, che toccavano l’intera gamma di emozioni dell’animo umano. Peccato solo per un po’ di orchestrazioni posticce che appesantivano brani che avrebbero necessitato di tutt’altra semplicità. Qualcuno si accorse di lui. Il suo repertorio fu saccheggiato da altri artisti. Il cantante pop Bobby Darin portò If I were a carpenter fino alla posizione 8 della classifica dei singoli. La critica incensò quegli album seppure non ancora perfetti.



L’apoteosi artistica arrivò però nel 1968. Tim Hardin aveva notoriamente paura del palcoscenico, paura amplificata dalle proprie dipendenze da alcool e droghe, da cui tristemente non si era mai liberato veramente. Era anche restio ad esibirsi accompagnato da una band, un po’ perché i concerti in acustico erano più redditizi (e, si sa, è difficile mantenere economicamente i propri vizi e una famiglia allo stesso tempo), un po’ perché la sua instabilità rendeva difficoltose le prove e il crearsi di una sinergia col gruppo. Tuttavia la Verve gli mise a disposizione una band eccezionale composta da jazzisti di prim’ordine, fra cui spiccavano Eddie Gomez, storico bassista nel trio di Bill Evans, il pianista Warren Bernhardt, pupillo di Evans e collaboratore di Kenny Burrel e Gerry Mulligan, e soprattutto lo straordinario vibrafonista Mike Mainieri, uno dei più grandi virtuosi dello strumento, il cui tocco avrebbe contribuito a dare le pennellate musicali più marcate e splendenti alle canzoni di Hardin.
Quella sera del 10 aprile 1968, alla Town Hall di New York, Hardin arrivò in forma strepitosa, nonostante le pochissime prove con il gruppo, che si trovò ad improvvisare quasi tutto in corso d’opera (un po’ come avvenne per i musicisti che, pochi mesi dopo, avrebbero dato vita a quel capolavoro rispondente al nome di Astral Weeks assieme a Van Morrison. Ma questa è un’altra storia).
I brani di Tim si libravano in volo, liberati dalle catene degli arrangiamenti in studio. Una dietro l’altra, Lady came from Baltimore, Reason to believe, e via andare, in un lungo e appassionato stream of consciousness musicale. La Verve ne ricavò un disco dal vivo, intitolato Tim Hardin III Live in concert, che rimane ancora oggi una pietra miliare insuperata nella storia della canzone d’autore americana. Le vendite non furono entusiasmanti ma neppure troppo scarse, e soprattutto le sue canzoni venivano costantemente reincise da altri artisti, da Johnny Cash in poi.
Il treno sta passando. Pare che il grande salto verso l’Olimpo sia solo una questione di formalità. Eppure qualcosa si rompe. Hardin è sempre più preso dalle proprie dipendenze e dalle proprie paure. Non riesce più a scrivere canzoni, sembra in stasi creativa. Spesso torna a casa ubriaco e si lascia andare ad episodi di violenza nei confronti della moglie. In lui convivono due uomini:il poeta, per cui Susan è la Musa ispiratrice, l’Angelo, il faro dell’esistenza, ed il tossico, violento e senza più freni inibitori. Si esibisce perfino a Woodstock, ma in pochi si accorgono di lui. Colpa anche di un set viziato da un’evidente ubriachezza.
La Verve lo scarica, preoccupata dalle sue condizioni umane ed artistiche. Lo riprende quasi subito la Columbia che, ironia della sorte, era stata la prima a fargli firmare un contratto e a lasciarlo quasi immediatamente a piedi. Suite for Susan Moore and Damion: we are one, one, all in one è il primo lavoro per l’etichetta. Un lungo e solipsistico inno alla moglie e al figlio, composto da brani lunghi e complessi, dal pochissimo appeal commerciale. Nelle pieghe di questo disco, una vera e propria seduta psicanalitica, emergevano tutti i sensi di colpa di Hardin nei confronti della propria famiglia, che esorcizzava scrivendo veri e propri inni laici di lode ai propri cari.
Le cose precipitano. Tim è sempre più schiavo dei propri demoni. Susan se ne è andata, esasperata, portandosi dietro il figlio. La Columbia, a fronte del fallimento, è perplessa ma è pronta a dargli un’altra chance. La sua etichetta gli mette a disposizione una pletora di ottimi musicisti, fra cui Joe Zawinul e Miroslav Vitous dei Weather Report. Hardin lascia tutto in mano al produttore Ed Freeman e si limita a cantare per lo più brani altrui. Esce Bird on a wire, dove nonostante tutto la title track, noto brano di Leonard Cohen, diventa una ballata soul da togliere il fiato, anche per la straordinaria interpretazione vocale. Il resto, a parte un brano autobiografico, Andre Johray, che commuove più per la storia che si legge fra le righe che per il risultato musicale, è un disco valido ma che risente fortemente della totale disconnessione del suo autore dal mondo. Superfluo dire che, a livello di vendite, anche questo disco è un fallimento.
Tim Hardin si trasferisce in Inghilterra. Ma in Inghilterra l’interesse principale dell’artista non è la musica bensì il metadone, fornito dal servizio sanitario nazionale britannico. Lì, la Columbia gli concesse l’ultima opportunità, con le modalità del disco precedente. Tim si sarebbe limitato a incidere le parti vocali. Stavolta fra i musicisti spiccano Peter Frampton ed Alun Davies, chitarrista storico di Cat Stevens. Painted head, l’album che ne consegue, è uno sbiadito ritratto di un artista che non c’è, un collage di parti sovrapposte e che nulla rappresentano della grandezza autoriale di Tim Hardin. Inevitabile la rescissione del contratto.
Seguì un ultimo album, Nine, rilasciato per una piccola etichetta inglese, patetico tentativo di inseguire i terreni di certo blues rock radiofonico alla Joe Cocker, nel quale però spicca una sofferta e finalmente autografa Shiloh Town, che sarà esaltata qualche anno dopo da una maestosa versione da Mark Lanegan.
Poi fu un progressivo isolamento dal mondo, fino ad una fine ampiamente prevista e forse anche cercata, giunta nel 1980 per overdose di eroina. Eppure, nonostante tutto, come reca l’iscrizione della sua lapide, “Tim Hardin ha sempre cantato dal profondo del cuore”.

(…continua…)

giovedì 30 maggio 2013

25 dischi jazz dalla Blue Note aka Il rincoglionimento senile.

Per gioco e per rispondere alla richiesta di un amico, visto il mio annunciato rincoglionimento senile che si manifesta con la crescita esponenziale degli ascolti jazz, ecco venticinque dischi imperdibili e forse nemmeno troppo noti che tutti dovrebbero avere in casa e che si potrebbero consigliare tranquillamente ad un neofita che di jazz non capisce nulla. Siamo in ambito Blue Note, la più grande etichetta a cavallo fra gli anni '60 e '70...di più non dico perché non ho né tempo né voglia. Buon ascolto a chi vorrà cimentarsi!


"Cannonball" ADDERLEY - Somethin' else 

Che dire di questo disco, a parte tutto il bene possibile? Un mood molto molto delicato, un personale strepitoso (Adderley al sax, Miles Davis alla tromba, Hank Jones al piano, Sam Jones al contrabbasso e il grande Art Blakey alla batteria), una rilettura di Autumn leaves da brividi lungo la schiena. Disco a mio avviso fondamentale. 

Art BLAKEY - Moanin' 

Siamo in un ambito mainstream, in cui il jazz di Blakey non ha ancora quella connotazione spiccatamente sociale di dischi come Free for alll!, eppure siamo in un campo in cui il jazz si sporca (insolitamente, almeno per l'epoca, considerando che siamo nel 1958) di soul e se vogliamo anche di gospel. Il personale (Lee Morgan - tromba, Benny Golson - sax tenore, Bobby Timmons - pianoforte, Jimmy Merritt - contrabbasso, Art Blakey - batteria) è anche qui di altissimo livello, con un Lee Morgan che tocca alcune delle sue vette espressive assolute. 

Donald BYRD - Byrd in hand 

Se si cerca un bignami dell'hard bop, questo potrebbe essere un compendio ideale. Byrd esplosivo alla tromba, Charlie Rouse (con Monk nei suoi album migliori) grande al sax. Musica energica, decisamente incardinata in un'epoca specifica del jazz, eppure che suona entusiasmante ancora oggi. Occhio solo al combo un po' più allargato dei dischi sopra elencati (ma analogo ad un disco come Kind of blue, a livello di pezzi sonori). 

Paul CHAMBERS - Bass on top 

Riporto da sopra: qui siamo in ambito blue note, profondamente mainstream. Eppure, questo disco, composto prevalentemente da standards, si fa ascoltare tutto d'un fiato, soprattutto per i meriti dello straordinario Hank Jones al pianoforte. Nonostante il combo ristrettissimo (Paul Chambers - contrabbasso, Hank Jones - piano, Kenny Burrell - chitarra, Art Taylor - batteria), il disco è tutt'altro che noioso. Il sottoscritto, che peraltro non ama per niente la chitarra nel jazz, trova che il lavoro di Kenny Burrell, delicatissimo e mai fuori le righe, sia semplicemente eccelso. 

Sonny CLARK - Cool struttin' 

Il pianista Clark ruba la sezione ritmica (Paul Chambers & Philly Joe Jones) al Maestro Davis e gli ruba anche una composizione per un disco dove la coralità del tutto riesce perfino a smorzare un Jackie McLean (alto sax) che, a dispetto della sua torrenzialità, qui pare insolitamente misurato. Il resto lo fa l'abilità del leader, che riesce a torcere il blues e a renderlo personalissimo. 

Eric DOLPHY - Out to lunch! 

Pochi cazzi, questo è uno dei capolavori di ogni tempo. Non è un disco facile, richiede impegno, si sporge verso ricerche estreme e verso terre free eppure alla fine entra nelle ossa. Eric Dolphy è stato uno dei più grandi di sempre, grande al sax, che suonava con uno stile violento ed irruente, enorme al clarinetto basso, immenso al flauto traverso. In questo disco, il suo testamento ma al contempo abbastanza agevole da approcciare rispetto ad altri suoi lavori - soprattutto dal vivo - dello stesso periodo, lo accompagnano dei fuoriclasse assoluti (Freddie Hubbard — tromba, Bobby Hutcherson — vibrafono,Richard Davis — contrabbasso, Tony Williams — batteria). La title track è una delle vette di ogni tempo. 

Lou DONALDSON - Gravy train 

Qualcuno potrebbe storcere il naso nel leggere questo titolo fra i fondamentali. Lo giustifico subito, per me questo disco è divertimento allo stato puro. That's enterteinment! Costruito sapientemente fra standard pochissimo jazz (Alebsp che è "diversamente giovane" si dovrebbe ricordare di South of the border, conosciuta in Italia come "Stella d'argento"...) e brani originali di Donaldson, ha in più un tocco latino dato dalle congas di Alec Dorsey difficilmente rintracciabile nei dischi del periodo. 

Kenny DORHAM - Whistle stop 

Ingiustamente sottovalutato, Kenny Dorham è uno dei migliori trombettisti di sempre. Il suo stile è nervoso eppure melodico allo stesso tempo. Solitamente il suo capolavoro è considerato Una mas (consigliatissimo anch'esso, con Joe Henderson, Tony Williams ed Herbie Hancock), ma io gli preferisco questo, non foss'altro per uno sforzo compositivo enorme e per la presenza di un sassofonista che amo moltissimo, Hank Mobley, oltre alla "solita" coppia ritmica Paul Chambers/Philly Joe Jones di cui già ho detto in precedenza. Inoltre, i pezzi sono medio//brevi, cosa che giova alla grande all'immensa godibilità di questo disco. 

Dexter GORDON - Our man in Paris 

Va bene, è un disco di standard. Ma sono standard suonati con un piglio tra l'estrema delicatezza ed il divertimento più assoluto. Anche questo è un disco "di intrattenimento", eppure funziona, viaggia come un treno, grazie alla linearità di Gordon al sax e all'enorme apporto di un Bud Powell strepitoso al pianoforte. Un perfetto "party record". 

Grant GREEN - Idle moments 

Pur non amando i chitarristi, questo disco è FANTASTICO. Perché? Perché c'è Joe Henderson al sax. Perché c'è Bobby Hutcherson al vibrafono. E soprattutto perché Grant Green è un chitarrista geniale. Ok, c'è del blues (ma il blues interpretato dai jazzisti è tutta un'altra cosa) ma c'è soprattutto un musicista che usa la chitarra come una tavolozza dove gli accordi aperti sono colori tenui ed evocativi e dove il solismo non è mai esasperato e soprattutto è sempre improntato alla ricerca della melodia sopra tutte le altre cose. La title track, composta dal pianista Duke Pearson, è qualcosa di celestiale. 

Herbie HANCOCK - Maiden voyage 

Perché questo e non Empyrean isle? O non Takin' off? Non lo so. Perché mi piace di più... La line up è la line up di base del quintetto davisiano periodo Seven steps, con Tony Williams alla batteria, Ron Carter al basso e lo stesso leader al piano, cui si affiancano Freddie Hubbard alla tromba e George Coleman al sax. Il risultato è un disco scoppiettante, dove la modalità si incontra coll'hard-bop, col funk e con atmosfere vagamente caraibiche. Disco imperdibile. 

Joe HENDERSON - Page one 

Altro disco fondamentale dei fondamentali. Henderson è un sassofonista stellare, pioniere di sperimentazioni in chiave jazz-funk e musicista sempre fuori dalle righe. E vicino a lui altri musicisti di livello ultrasonico (Kenny Dorham - tromba, McCoy Tyner - pianoforte, Butch Warren - basso, Pete La Roca - batteria). In particolare, da sottolineare l'immenso lavoro di Pete LaRoca ai tamburi, musicista incredibile e che ha lasciato poco rispetto al suo valore. Fondamentale l'apporto di Kenny Dorham, la cui Blue Bossa, nella quale Henderson dà sfoggio di tutto il suo talento, è diventato uno degli standard più classici del jazz. 



Andrew HILL - Point of departure 

Andrew Hill, pianista maestoso ma molto parco di produzioni, rilascia un vero e proprio capolavoro. Sospeso fra una certa qual classicità e la tendenza avanguardista, questo disco è una serie di composizioni molto complesse sia da un punto di vista armonico sia da un punto di vista ritmico, che solo un combo allucinante come quello raccolto intorno ad Hill poteva sostenere. Qui troviamo infatti Kenny Dorham, Eric Dolphy, Joe Henderson, Richard Davis e Anthony Williams oltre al leader, cioè il più grande gruppo mai riunito in sala di incisione, almeno a mio modesto parere. Anche questo non è un disco semplicissimo e richiede attenzione ma rientra dritto dritto fra gli irrinunciabili. 

Freddie HUBBARD - Open sesame 

Debutto folgorante come leader. Hubbard fra i trombettisti è indiscutibilmente il più funambolico e il più estroverso tecnicamente. E non è un caso che le sue svisate spesso ai limiti dell'estremo tecnico gli abbiano fatto guadagnare un posto nell'ensemble free di Ornette Coleman. Normale allora che intorno a lui ci stia un McCoy Tyner abituato da sempre ad arginare le sfuriate di un certo Coltrane con il suo pianismo dilatato. In questo disco, però, Hubbard riesce comunque a contenersi e ciò giova sicuramente al godimento nell'ascolto. 

Pete LaROCA - Basra 

Tre dischi da leader e non più di una quindicina da sessionman sono pochissimi per un musicista del talento e dell'eccentricità di Pete LaRoca. Il suo stile è uno stile complesso, intricato eppure incredibilmente seducente. Intorno a lui girano Joe Henderson all'alto, Steve Kuhn al piano e 
Steve Swallow al contrabbasso. La versione di Malaguena è una vera e propria ulteriore destrutturazione della modalità, il resto è un crogiuolo di soluzioni ritmiche e armoniche complesse con un Henderson che si cala alla grande nella parte e spadroneggia in lungo ed in largo. Tra i dischi "esoterici", questo è uno di quelli più importanti. 

Hank MOBLEY - Soul station 

Non ho parole per definire la grandezza di Hank Mobley. Sempre considerato un sassofonista di serie B, forse perché non ha avuto il carisma innovativo di un Parker, di un Coltrane, di un Dolphy ma anche di uno Shorter, per me è uno dei più grandi. Il suo fraseggio, sempre melodico, elegante e vicino al canto, è qualcosa di incredibile, in cui la semplicità va di pari passo con l'espressività. Poi Mobley è stato anche (e anche qui troppo sottovalutato) un grandissimo autore, i suoi dischi sono quasi esclusivamente autografi. I suoi dischi dall'esordio su Blue Note a No room for squares sono tutti da avere. Questo Soul station forse è quello che ha qualcosa in più, anche per gli sparring partners Wynton Kelly al piano, Paul Chambers al cb e Art Blakey alla batteria. Uno dei dischi da cui un neofita dovrebbe iniziare per approcciarsi al jazz. 

Lee MORGAN - The sidewinder 

Lo ammetto, ho un debole per Lee Morgan. Il suo lirismo interpretativo, pari a quello di un Chet Baker molto meno depresso o di un Miles Davis nei momenti più raffinati, lo salva anche in quelle (purtroppo tante) registrazioni non all'altezza realizzate più per recuperare i soldi per la droga che per altro. Allo stesso modo la sua figura tragica (finirà ammazzato a colpi di pistola sul palco dalla moglie gelosa) poco si sposa con la musica travolgente che era capace di tirar fuori. Questo Sidewinder, l'unico suo album non discontinuo, è certamente il suo capolavoro. La title track è un brano il cui riff si stampa nel cervello. Il resto è sospeso fra echi rythm'n'blues e latini, con uno sguardo all'hard bop che nel 1964 era già quasi passato di moda. Nel mainstream jazz, senza dubbio uno dei capolavori. 

Bud POWELL - Time waits: The amazing Bud Powell Vol. 4 

Bud Powell è un'altra figura drammatica. Ma stavolta a differenza del caso di Lee Morgan, la drammaticità dell'uomo emerge goccia a goccia dai solchi dei suoi dischi. Pianista particolarissimo e pioniere di una generazione, fu quello che cercò di tradurre i fraseggi fiatistici sulla tastiera. Scelgo questo perché le sue registrazioni in trio sono tutte da lacrime o da applausi, a seconda degli stati d'animo con cui si ascoltano. Sam Jones al basso e Philly Joe Jones alla batteria accompagnano con una maestria le composizioni sofferte di Powell per un disco che definire fondamentale è poco. 

Ike QUEBEC - Blue & Sentimental 

Prendere ciò che è stato detto per il disco di Dexter Gordon, aggiungerci l'apporto di Grant Green e del piano di Sonny Clark. In più shakerare col fraseggio potente di Quebec, in bilico fra il sentimentalismo e il blues, come dice il titolo, ed avrete uno dei più bei compendi di classicità in jazz di sempre. Esercizio di stile? Può essere. Ma chi se ne fotte! Fa godere lo stesso. 

Freddie REDD - Shades of Redd 

Un altro pianista, anche lui molto poco prolifico. Shades of Redd è un disco non da effetti spettacolari ma da sostanza purissima. Il pianismo di Redd è essenziale e misurato, mai appariscente ma perfetto per accompagnare i dialoghi fra il contralto di Jackie McLean ed il tenore di Tina Brooks. Le composizioni, poi, sono un capolavoro di equilibrio che spostano l'hard bop su vie di eleganza e si fanno largo ascolto dopo ascolto. 

Sonny ROLLINS - A night at the Village Vanguads 

Dove sta la grandezza di questo disco? Nel testimoniare la cifra stilistica di uno dei più grandi innovatori della storia del jazz. Questo (doppio, nella ristampa) album è una preziosa immagine della genialità di Rollins che inventa il "piano-less" trio. Fu il primo a togliere il piano e a rendere secchi ed essenziali i propri suoni. E la godibilità ne perde? No. Proprio questo è il punto. Il trio di Rollins, nonostante l'assenza del piano e l'asciuttezza dei suoni è un prodigio di classe e piacevolezza, che si concretizzano nella ripresa di standard dalla resa una migliore dell'altra. Anche questo è un disco da avere. 

Wayne SHORTER - Speak no evil 

Shorter non ha bisogno di presentazioni. Fu il sostituto naturale di Coltrane nel quintetto di Miles Davis e fondò una band seminale come i Weather Report. Serve altro? Sì: serve Speak no evil. Dentro ci sono il funambolico Hubbard alla tromba, qui perfettamente a suo agio nella complessità armonica delle composizioni, ricche di dissonanze tipiche della contemporaneità europea, Hancock al piano, Carter al contrabbasso ed Elvin Jones alla batteria. Disco meditativo, a volte quasi "dark", vicino ad alcune soluzioni di ricerca simili a quelle che lo stesso Shorter stava percorrendo insieme a Davis in lavori come ESP. Disco da ascoltare e riascoltare per entrarci veramente a fondo. 

Horace SILVER - Song for my father 

La title track, messa all'inizio, è senza dubbio il più grande riff della storia del jazz. Anzi, Song for my father sta al jazz come Satisfaction al rock. Intorno ci sono atmosfere vagamente latineggianti (e chi ci troviamo al sax? Il solito Joe Henderson!). Il resto è un disco vivace che si ascolta con grande piacere. Anche qui, il territorio è quello mainstream, però di classe superiore. 

Stanley TURRENTINE - Look out! 

Stanley Turrentine è uno dei sassofonisti dal fraseggio più potente dell'epoca. E questo disco, in cui il quartetto è composto dal leader, da Horace Parlan al piano, Al Harewood alla batteria e George Tucker al contrabbasso, è un bellissimo compendio che unisce composizioni originali di Turrentine (e una di Parlan) a standard. Il fraseggio è molto particolare, brillante e carico da un lato di elementi bop (e non è un caso che venga interpretata Tiny Capers di Clifford Brown) e dall'altro rimandi rythm'n'blues e, qua e là, perfino funky. 

McCoy TYNER - The real McCoy 

Last but not least, l'enorme McCoy Tyner (peraltro, l'ho visto un mese fa a Torino in un concerto che metterei sul podio della vita e alla fine del quale ho anche avuto modo di scambiare qualche parola con questo uomo dalla statura artistica ed umana gigantesca). Ancora una volta a contrappuntare il leader troviamo l'affiatata sezione ritmica Carter al contrabbasso ed Elvin Jones alla batteria e il solito Henderson al sassofono. Tyner è un maestro del piano, il suo stile è improntato su un uso virtuoso dello staccato e sulla ricerca di armonie complesse, che dovevano servirgli ad accompagnare un musicista "irregolare" come Coltrane, dal quale si staccò quando quest'ultimo disse il suo definitivo addio alla tonalità. In questo disco, esordio da leader, affianco alle suggestioni coltraniane troviamo un approccio sporcato da echi etnici (musica asiatica, africana e sudamericana) ed una capacità compositiva totalmente sopra la media. Per me un must.

lunedì 21 gennaio 2013

DYLAN IN VENTI PUNTATE - 5: All Along The Watchtower


ALL ALONG THE WATCHTOWER
Dylan e l'imminenza della Tempesta.

“Dev'esserci qualcuno qua fuori”, disse il Giullare al Ladro. “C'è troppa confusione e non riesco a trovare pace. Uomini d'affari stanno bevendo il mio vino e contadini stanno scavando la mia terra; nessuno di loro, che stanno sul confine, sa quanto vale tutto questo”.

“Non c'è ragione per agitarsi troppo”, rispose gentilmente il ladro. “C'è fin troppa gente che crede che la vita non sia altro che uno scherzo. Ma io e te da qui ci siamo passati e sappiamo che questo è il nostro destino. Non parliamo in maniera falsa: ci resta poco tempo”.

Lungo le torri di guardia prìncipi se ne stavano a guardare mentre intorno andavano e venivano donne e servitori a piedi nudi. Fuori, in lontananza, un puma ringhiò. Due cavalieri si stavano avvicinando. Il vento cominciò ad urlare.

All along the watchtower, probabilmente la canzone più complessa e rappresentativa di Bob Dylan è l'imminenza della battaglia, il presagio della furia del momento, un lampo nell'oscurità. E dire che nel 1968, in mezzo alla confusione sociale che scuote il mondo, abbattendo certezze, fedi, tradizioni, verità, Dylan sembra profetizzare sottovoce. Sembra quasi che non voglia che nessuno senta. “Voce di un uomo che grida nel deserto”, come il profeta Isaia tremila anni prima di lui. La versione che esce su “John Wesley Harding”, considerato non a caso il disco di “parabole” di Dylan, è un sussurro scarno, un sinistro presagio di qualcosa che sta per deflagrare. Del potenziale di questa canzone se ne accorgerà però un nero mancino di sangue Cheerokee di Seattle, tale James Marshall Hendrix. Se la versione di Dylan era un presagio, nella versione Hendrixiana la tensione esplode in un grido di elettricità. Che sarà poi sublimata dalle versioni incendiarie di Neil Young, dei Pearl Jam e dello stesso Dylan che nei suoi concerti degli anni Novanta la trasformerà in una vera e propria tempesta di fuoco.
Sono tre accordi che si ripetono ossessivamente, non più di tre accordi che incidono a fuoco parole di portata quasi biblica. Dylan smette di essere un cantante e veste i panni di Profeta per urlare l'attesa. Il vento porta l'attesa. Il vento urla il dramma dell'uomo. La vita non è uno scherzo, e gli unici a saperlo sono coloro che il Potere ha messo ai margini. Il ladro ed il giullare sono gli uomini ai margini. Il ladro è colui che sta fuori dalla legge e perciò al di sopra della legge. Il giullare è l'unico che può mostrare al Re la sua nudità. Il giullare sta dentro la Verità e perciò è al di sopra della Verità. Sono dentro la vita, dentro alla legge e dentro alla verità, al punto che sono gli unici a capire che “i tempi stanno cambiando” - come già lo stesso Dylan cantava nel 1963 – e che qualcosa si profila all'orizzonte. Eppure gli uomini sulle torri di guardia hanno conosciuto il potere ed hanno scordato il compito delle sentinelle: quello di guardare l'orizzonte e mettere in guardia dal pericolo. Ancora una volta Dylan ha colto nel senno e si è fatto profeta del suo tempo, tremila anni dopo Isaia. “I suoi guardiani sono tutti ciechi, non si accorgono di nulla. Sono tutti cani muti,incapaci di abbaiare; sonnecchiano accovacciati, amano appisolarsi. Ma tali cani avidi, che non sanno saziarsi, sono i pastori incapaci di comprendere.” I principi del mondo della canzone sono gli stessi pastori avidi ed ebbri di donne e di potere. Ai loro schiavi hanno tolto perfino le scarpe.
E così, quando i due cavalieri arriveranno a portare lo scompiglio nel mondo e a rovesciare le carte, troveranno pronti soltanto il Giullare ed il Ladro, gli unici che hanno capito che la vita non è uno scherzo ma una lotta continua.
Ma come si concretizzerà questo presagio? Questo presagio continuerà a tormentare Dylan per tutta la sua vita e, di riflesso, in tutte le sue canzoni. Vent'anni dopo, in un mondo radicalmente mutato, canterà in “Ring them bells” queste parole: “Suona quelle campane, Santa Caterina,dall'alto della stanza, suonale dalla fortezza per i gigli che fioriscono. Oh, le strade sono lunghe e la battaglia e' violenta e stanno cancellando la differenza fra cos'è giusto e cos'è sbagliato.” Eppure le campane di Santa Caterina sono il segno di qualcosa, o qualcuno, che accompagna l'uomo nella lotta. Perché, senza un punto fermo cui guardare nel turbine degli eventi, l'uomo si perde.
È la dinamica della vita. Se l'uomo perde di vista la realtà degli eventi, i segni dei tempi – come il verso di un puma che annuncia che da lontano qualcuno sta arrivando – e soprattutto la contezza del proprio destino, la lotta si trasformerà ben presto in rovinosa sconfitta.
“Nella furia del momento posso vedere la mano del Signore, in ogni foglia che vibra, in ogni granello di sabbia”. Bob Dylan canterà questo verso nel 1981, tredici anni dopo aver fatto uscire All along the watchtower. E tuttavia continuerà a chiudere i suoi concerti con All along the watchtower, sempre in poderose versioni elettriche, fino ai giorni nostri. Ed a profetizzare l'incombenza di una tempesta imminente, di fronte alla quale bisogna essere ben vigili.

lunedì 14 gennaio 2013

DYLAN IN VENTI PUNTATE - 4: Black Diamond Bay


BLACK DIAMOND BAY
Sceneggiatura dall'Apocalisse

Sulla bianca veranda lei indossa una cravatta ed un cappello Panama. Il suo passaporto mostra un viso da un altro tempo e da un altro luogo e lei non vi somiglia per niente e tutti gli avanzi del suo recente passato sono dispersi nel vento tempestoso. Cammina sul pavimento di marmo verso la voce che la chiama dalla sala da gioco, invitandola ad entrare. Lei sorride e va dall'altra parte mentre l'ultima nave salpa e la luna tramonta dalla Black Diamond Bay.
Alle prime luci dell'alba arriva il Greco e chiede una corda ed una penna che scriva. "Pardon, monsieur - dice l'impiegato togliendosi con cura il fez - Ho sentito bene?" e mentre si alza una nebbia giallastra il Greco sale velocemente al secondo piano. Lei gli passa davanti sulla scala a chiocciola scambiandolo per l'ambasciatore sovietico. Inizia a parlare ma lui passa oltre mentre nubi tempestose si ammassano e le palme ondeggiano su Black Diamond Bay.
Un soldato siede vicino al ventilatore e contratta con un piccoletto che gli vende un anello. Il fulmine colpisce, le luci si spengono. L'impiegato si sveglia e comincia a gridare: "Qualcuno vede qualcosa?" Poi il Greco appare al secondo piano a piedi nudi con una corda intorno al collo mentre un perdente nella sala da gioco accende una candela e dice "Apra un altro mazzo".
Ma il croupier dice "Attendez-vous, s'il vous plait!" mentre la pioggia batte e le gru volano via da Black Diamond Bay.
L'impiegato sentì la donna ridere mentre guardava in giro le conseguenze e il soldato ci andava pesante. Provò a prendere la mano della donna dicendo "Ecco un anello, costa una fortuna!". Lei disse "Non basta" poi corse di sopra a fare i bagagli mentre un taxi tirato da cavalli aspettava alla curva. Lei superò la porta che il Greco aveva chiuso a chiave, sulla quale un cartello scritto a mano recitava "Non disturbare". Lei bussò ugualmente mentre il sole tramontava e la musica suonava su Black Diamond Bay
"Devo immediatamente parlare con qualcuno!" Ma il Greco disse: "Và via!" e diede un calcio alla sedia, rovesciandola sul pavimento. Restò lì, appeso al lampadario. Lei gridò "Aiuto! C'è un'emergenza! Per favore aprite la porta!" Poi il vulcano eruttò e la lava tracimò dalla parte alta della montagna verso valle. Il soldato ed il piccoletto si rannicchiarono in un angolo pensando ad un amore proibito. Ma l'impiegato disse "Succede tutti i giorni!" mentre i lapilli venivano giù ed i campi bruciavano su Black Diamond Bay.
Mentre l'isola lentamente affondava il perdente finalmente fece saltare il banco nella sala da gioco.
Il croupier disse "E' troppo tardi ormai. Puoi prenderti il tuo denaro ma non so come lo spenderai in una tomba!" Il piccoletto morse l'orecchio del soldato mentre il pavimento crollava e la caldaia nella cantina esplodeva. Intanto lei è sulla balconata dove uno straniero le dice:"My darling, je vous aime beaucoup". Le scende una lacrima e poi comincia a pregare mentre il fuoco divampa ed il fumo si alza dalla Black Diamond Bay.
Me ne stavo seduto da solo a casa mia una notte a Los Angeles guardando il vecchio Cronkite al notiziario delle sette. Sembra che ci sia stato un terremoto che non ha lasciato nient'altro che un cappello Panama ed un paio di vecchie scarpe greche. Sembra che non sia successo granché,  così ho spento e mi sono andato a fare un'altra birra. Sembra che ogni volta che ti guardi intorno tu debba sentire un'altra storia assurda e non c'è veramente nessuno che possa dire niente. E comunque io non ho mai pensato di andarci, a Black Diamond Bay.

C'era un vecchio libro di Joseph Conrad. Si chiamava, se non ricordo male, Vittoria o qualcosa del genere. Raccontava una storia simile, di due tizi che si ritrovano su un'isola abitata solo da individui che a definirli loschi era dire poco. Quel luogo si chiamava appunto Black Diamond Bay. La baia del diamante nero. Quei due, Bob e Jacques si ricordavano vagamente del suo contenuto. Ma qualcosa gli era dovuto rimanere in mente, con tutta probabilità. Così si ritrovarono a scrivere una nuova storia, che poteva essere la scenografia di un film. Chissà, il Greco avrebbe potuto avere la faccia dura dagli occhi persi di Humphrey Bogart. E lei, chi è lei? Quei due, il Greco e lei sembrano arrivati al termine della propria strada. Lei, probabilmente abbandonata da qualcuno. Più probabilmente abbandonata da se stessa. Lui, chissà cosa ha passato. Probabilmente ha dato fastidio a qualcuno. Più probabilmente ha dato fastidio a se stesso. Così, lui chiede una corda. Sì, una corda. Lei non chiede più niente, invece, inchiodata com'è al proprio passato. Passato che non si conosce ma, certo, si intuisce.
Intorno, tutto sembra procedere nel disordine della normalità. C'è la solita gente ai tavoli da gioco, la solita gente con ghigne da perdenti e fiele nelle vene. Loro, a differenza di lei e del Greco, non si chiedono più nulla. Ma, nel turbine degli eventi, qualcosa sconvolge il corso degli eventi. Un fulmine. Il buio. Gente che grida. Nel frattempo, un soldato prova a regalarle un anello. Ma a lei non importa nulla. Non le importa più nulla. Ha puntato il Greco. Probabilmente lo ha scambiato per uno importante, forse un ambasciatore. Mi potrà far tornare a casa? Mi spazzerà via da questo cerchio che mi stringe la gola? Ma la gola del Greco ormai è già stretta dalla corda. Lui ha altro per la testa, ora.
A sconvolgere i piani di tutti arriva l'Apocalisse. Il vulcano, è il vulcano che si è risvegliato e sta portando via tutto ciò che sta attorno. Anche i piani del Greco, che pensava di poter fare tutto da sé. Il disordine della normalità si spezza. Il perdente fa saltare il banco, ma è troppo tardi, perché tutto sta andando ormai fuori controllo. Anche il violino pare incrinarsi, nel momento dell'Esplosione Suprema.
Cosa resta delle loro storie? Resta un avviso al telegiornale, con il vecchio Walter Cronkite, “l'uomo più creduto d'America”, che dà freddamente la notizia al telegiornale delle sette. E di quelle storie, cosa ne sappiamo noi? Cosa resta? Non lo so, non lo sappiamo. Comunque, io non ci volevo andare nemmeno, a Black Diamond Bay.

domenica 6 gennaio 2013

DYLAN IN VENTI PUNTATE - 2/3: Abandoned Love & Sara


ABANDONED LOVE & SARA
Storia di una storia

Posso sentire la chiave che gira. Sono stato ingannato dal clown che è dentro di me: ho pensato che avesse ragione ma è inutile. Qualcosa mi dice che indosso la palla e la catena. Il mio santo patrono combatte con un fantasma e non c'è mai quando più ne ho bisogno. La luna spagnola si alza sulla collina ma il mio cuore mi dice che ti amo ancora.
Ritorno in città dalla luna fiammeggiante, ti vedo per le strade, comincio a delirare. Mi piace vederti vestire davanti allo specchio: mi lasceresti entrare nella tua stanza un'ultima volta prima che sparisca definitivamente?
Tutti si travestono per nascondere quello che celano dietro i loro occhi ma io, io non riesco a nascondere quello che sono. Dovunque vadano i ragazzi li seguirò.
Sfilo nella parata della libertà ma finché ti amo non sarò libero. Per quanto tempo ancora dovrò subire un abuso come questo? Non mi lasceresti vedere il tuo sorriso un'ultima volta prima che io ti lasci andare?
Abbandono la partita, me ne vado, la pentola dell'oro è solo finzione il tesoro non può essere trovato dagli uomini che lo cercano se i loro dei sono morti e le loro regine stanno in chiesa.
Eravamo seduti in un teatro vuoto e ci baciammo. Ti chiesi per piacere di cancellarmi dalla tua lista. La mia testa mi dice che è ora di cambiare ma il mio cuore invece mi dice che ti amo anche strana come sei.
Ancora una volta a mezzanotte vicino al muro togliti quel trucco pesante e quello scialle. Perché non scendi dal trono sul quale sei seduta? Fammi sentire il tuo amore ancora una volta prima che lo abbandoni.


Me lo vedo, lui, in sala di registrazione. I musicisti, come al solito non sanno niente di ciò che lui voglia fare, di cosa abbia in mente. Ma, si sa, lui è un genio e va preso così, per quello che è. Tuttavia l'aria nello Studio A, già torrida dal caldo e grondante sudore per l'umidità, questa sera è ancora più incandescente. C'è una figura dietro il vetro, una figura di donna. Ha capelli lunghi e l'aria piuttosto altera. No, non parlo di quella misteriosa ragazza gitana dai capelli rossi che sta suonando il violino. No, la sua presenza è più imponente. Nessuno sa il suo nome ma qualcuno dei ragazzi comincia ad intuire qualcosa.
Lui è teso come le corde della sua Martin, è più elettrico che mai. Chiama Scarlet. Poi Rod e Howard. Ovviamente li chiama senza parlare perché lui non parla mai e, se parla, parla cantando. Però stavolta fa uno strappo. Loro si chiedono chi sia quella donna di là del vetro. Perché lui è così teso. A qualcuno viene in mente la frase di una sua canzone: “ho creduto che lei fosse la mia gemella ma ho perso l'anello”. Sarà lei? Non si sa. Si sa solo che lui è sempre più teso. Comincia a suonare a rapide pennate sulla sua chitarra. Poi comincia a cantare. Ma sì, quella canzone l'aveva cantata con Ramblin' Jack qualche sera prima. Ai suoi ragazzi aveva dato solo un canovaccio con qualche verso scritto male e gli aveva detto di andargli dietro.
Quell'uomo dietro al microfono è un uomo tormentato, spaccato in due come una mela. Guarda fisso dietro il vetro. Sto combattendo contro me stesso – pare dire. Credevo di avere perso l'anello, che tutto fosse rotto, che domani fosse troppo lontano, eppure ti amo ancora, di una passione più forte di una catena che mi lega. Vorrei andare, vorrei andare ma poi vorrei tornare di corsa da te. Ci ho provato tante volte ad andarmene ma più cerco di essere libero e più sono avvinto a te. Ma sono legato a te o al tuo ricordo? E tu, perché sei così fredda, così cattiva con me, così dura?
Quell'uomo non sa darsi pace e, mentre canta, sulla fronte di lei, dietro al vetro, sembra alleggerirsi quella ruga di corruccio che fino ad allora la solcava come una duna.
Scarlet suona il violino, improvvisando come sempre, mentre lui canta il suo combattimento interiore. Poi, dopo qualche minuto, chiama alla band il finale. Al solito, è un finale confuso, perché i ragazzi non sanno mai cosa lui abbia in testa.
Quando la musica si ferma, c'è un gran silenzio in studio. Se, nei giorni prima, l'aria era rallegrata dalla goliardia dei musicisti e dal tanto vino che girava fra di loro, oggi quando i ragazzi hanno finito di suonare c'è un silenzio tale che sembra quasi di percepire il battito del polso di ciascuno, che pulsa di suoni intrecciati e continui.
Poi lui, con un gesto solenne, chiama un MI minore. Loro non sanno cosa aspettarsi: non avevano preparato nulla. Rob guarda la sua mano sinistra e sta pronto a dare il via. Si sa, in una band è sempre il bassista a dirigere i lavori.
Poi si avvicina al microfono. D'un tratto sgrana gli occhi azzurri, che fino ad allora aveva tenuto bassi al suolo, e li fissa di là del vetro. Lei si avvicina d'un tratto. Per la prima volta sembra anche lei parecchio tesa, lei che fino ad allora era rimasta impassibile.
Lui sussurra nel microfono quattro parole: “Questa è per te”. Poi comincia a soffiare nell'armonica, quasi senza preavviso....


Disteso su una duna guardavo verso il cielo, ai tempi in cui i nostri figli erano piccoli e giocavano sulla spiaggia. Arrivasti dietro di me, ti vidi passare. Eri sempre così vicina ed a breve distanza
Sara, Sara, cosa mai ti ha fatto cambiare idea? Sara, Sara, così facile da osservare, così difficile da definire.
Mi sembra di vederli ancora giocare con i loro secchielli nella sabbia, correre verso l'acqua per riempirli. Mi sembra ancora di vedere le conchiglie cadere dalle loro mani mentre si seguivano l'uno dietro l'altro sulla collina.
Sara, Sara, dolce e casto angelo, dolce amore della mia vita, Sara, Sara, gioiello raggiante, mistica sposa.
Dormivamo nei boschi accanto ad un fuoco nella notte, bevevamo rum bianco in un bar del Portogallo,loro giocavano alla cavallina ed ascoltavano Biancaneve, tu andavi nel supermarket a Savanna-la- Mar.
Sara, Sara, è tutto così chiaro, non potrei mai dimenticarmene, Sara, Sara, amarti è la sola cosa che non rimpiangerò mai.
Mi sembra ancora di sentire il suono di quelle campane Metodiste, mi ero curato e stavo pian piano guarendo e restai in piedi per giorni al Chelsea Hotel per scrivere "Sad-Eyed Lady of the Lowlands" per te.
Sara, Sara, dovunque andremo non ci separeremo mai, Sara, Sara, stupenda signora, carissima al mio cuore
Come ti ho incontrato? Non lo so. Un messaggero mi inviò in una tempesta tropicale. Eri lì in inverno, luce lunare sulla neve ed in estate sul Lily Pond Lan.
Sara, oh Sara, Sfinge Scorpione in un vestito di calicò, Sara, Sara, ti prego di perdonare la mia inadeguatezza.
Adesso la spiaggia è deserta, a parte qualche alga e un pezzo di una vecchia nave che giace sulla riva. Mi hai sempre risposto quando ho avuto bisogno del tuo aiuto, mi hai dato una mappa ed una chiave per la tua porta.
Sara, oh Sara, affascinante ninfa con un arco ed uno strale, Sara, oh Sara, non lasciarmi mai, non andartene mai.

D'un tratto, mentre cantava, tutto fu chiaro. Ma certo – pensarono i ragazzi – lei è Sara. Cazzo, proprio lei. Nessuno l'aveva mai vista. Sara, la madre dei suoi cinque figli. Sara, la gemella perduta, lei che credevano perduta a Tangeri, lei che voleva portarsi via i bambini, via, lontano da lui. Lei, che gli aveva fasciato le ferite quando si era rotto l'osso del collo, quasi dieci anni prima. Lei, che lo aveva raccolto quando la sua moto era finita fuori strada e nessuno sembrava poter fare nulla per lui.
Lui, Bob, trascina le parole. Sembrano quasi pesargli sulle labbra. Snocciola ricordi, scene di vita vissuta ed ordinaria, ma con un brillio poetico, candido di neve sotto la luce della luna piena.
Ti ricordi, Sara? Ti ricordi quand'eravamo felici? E ora, cosa si è rotto? Voglio tornare con te, Sara, voglio tornarci per tutta la vita.
Chissà cosa avrà pensato Sara. Avrà pensato di certo che sei il solito, fottutissimo incantevole adorabile bugiardo. Ammettilo, non sei mai stato al Chelsea Hotel a scrivere Sad eyed lady of the lowlands. E soprattutto, non ti eri ancora curato e non stavi affatto guarendo. Anzi, non mi sarei sorpreso affatto se quella canzone l'avessi scritta per Joan, per quell'altra. Ma tanto lo so già cosa avresti risposto, Bob. Avresti risposto solamente, sì, è vero, ma avrei voluto che succedesse davvero così. E comunque, non importa. L'unica cosa che mi importa è che tu sia qui con me.
Un'armonica a fendere l'aria. E poi, la canzone è finita. E resta solo il silenzio. Tutti sono in silenzio, come solo si sta di fronte alle cose grandi.