venerdì 29 novembre 2013

BLACK SHEEP BOYS – Un percorso attraverso i sentieri oscuri del cantautorato americano.

UNA PICCOLA INTRODUZIONE

In principio era il folk revival. La rinascita del folk aveva casa in New York, Greenwich Village, là dove chiunque con una chitarra poteva sperare di cambiare il mondo. La politica e la musica si mischiavano ed ogni giorno arrivavano nuovi aspiranti folk singer giunti dai quattro angoli della terra promessa chiamata America, tutti con la propria chitarra acustica in mano, di soldi in tasca niente e, il più delle volte con un talento più da “giornalisti” che da cantanti.


1. FRED NEIL, L'UOMO DALLE OMBRE NEGLI OCCHI

Tra di loro ce n’era uno in particolare che su tutti metteva soggezione ed incuteva timore già solo per l’aspetto altero. No, non si parla di quel ragazzetto paffutello e imberbe che di lì a poco sarebbe diventato Bob Dylan. Lui era Fred Neil e veniva dalla Florida, nonostante la sua proverbiale ombrosità facesse a pugni con la solarità dei suoi luoghi natali.
Racconta Bob Dylan nel suo Chronicles – Volume 1, fedele racconto di quei primissimi anni Sessanta, che Fred Neil era capace di tenere in pugno il pubblico soltanto con uno sguardo, tanto la sua presenza era magnetica e carismatica. Neil non era un folk singer come tutti gli altri. Conosceva il jazz e il blues a menadito e aveva nelle sue liriche una forza visionaria che i più si potevano soltanto sognare.
La sua musica aveva ben poco da spartire con quella dei tanti emuli di Woody Guthrie. Lui la tradizione la conosceva meglio di tutti e per questo poteva permettersi di tradirla come e quando voleva. Così quando nel 1966 diede alle stampe il suo terzo album, intitolato semplicemente col suo nome, segnò una svolta nella storia della musica americana. Se ne accorsero in pochi, in realtà. Quel disco dalla copertina scura – una foto in bianco e nero dell’autore insieme al figlio su campo nero – avrebbe lasciato una traccia molto più profonda e significativa del numero delle copie vendute.
L’anno prima era uscito il primo disco completamente a suo nome, dopo un album a due con il folk singer Vince Martin. La copertina di quel suo primo disco era il simbolo di una generazione, al pari di quella di The freewheelin’ Bob Dylan. Lui lì, in piedi in mezzo alla strada, in un incrocio notturno di strade, col blu fondo della notte tagliato in due dalle insegne dei locali di New York, dove pulsava l’anima di una generazione. Quel suo primo disco era un incrocio di folk e blues, con i primi accenti elettrici che lampeggiavano vivi nei solchi e, su tutto, una voce baritonale a guidare il tutto.
Ma fu proprio con quel disco omonimo che Neil segnò la storia del cantautorato americano. Una chitarra carica di riverbero, che metteva in musica lo sciacquio delle onde del mare, segnava il preludio di uno dei momenti più alti mai ascoltati su disco. The dolphins era messa lì in apertura del suo omonimo album. Difficile definire quella canzone. Non era un brano folk. Era qualcosa di diverso e profondamente nuovo. Un pezzo che sembrava arrivare da chissà dove, da oltre la linea dell’orizzonte, un pezzo di vele e di vento, di sciabordare del mare, di echi lontani ed indefinibili.
C’erano poi brani dall’eco più blues, a significare l’anima tradizionalista di Neil. C’era un bislacco pezzo psichedelico di otto minuti dal titolo impronunciabile (Cynicrustpetefredjohn Raga) che sembra più uno scherzo che altro. Ma, soprattutto, c’erano tre brani che avrebbero influenzato una generazione di autori e cantanti.
Faretheewell (Fred’s tune) altro non è che una ripresa di un noto tema folk – Dink’s song – ma rallentato all’inverosimile e tutto sospeso fra gli scuri vibrati del canto di Neil ed arpeggi appena impercettibili di chitarra. Non c’è alcuno schema. L’accompagnamento musicale viene dilatato e staccato dalla linea della melodia tracciata da Neil, che pare sospesa per aria, oscura ed eterea allo stesso tempo. Green rocky road è un tempo a ¾ dall’andamento jazzato, dove ancora una volta la voce viaggia libera, divincolandosi dalle strette briglie dell’accompagnamento.
E poi c’è Everybody’s talking, la canzone che quasi tutti conoscono per la cover che ne fece Harry Nilsson nella colonna sonora di “Un uomo da marciapiede”. La versione del suo autore è però più meditabonda e allo stesso tempo inquieta. Ascoltandola, sembra proprio di vedere le ombre degli occhi della gente di cui parla il testo. “Non lascerò che tu ti lasci alle spalle il mio amore, no, non lo permetterò”. Mai vi è stata una canzone capace di condensare il rimpianto in così pochi versi. Everybody’s talking fu l’unico successo di Fred Neil (sebbene come autore e non come interprete). Di questo disco, il pubblico non se ne accorse quasi per nulla. D’altronde, il suo fascino era un fascino nascosto, segreto, lontano degli sfarzi del mondo pop ma anche dalle nuove ondate musicali che attraversavano l’America da costa a costa e che avrebbero portato di lì a poco ad una lunga ed effimera estate dell’amore.
Neil non si curava di tutto ciò che gli stava intorno e poco a poco finì per perdere interesse per la musica. Dopo il suo album omonimo, Neil non registrerà più nulla in studio, limitandosi in rarissime occasioni ad esibirsi dal vivo, per platee composte più che altro da vecchi amici, ad interrompere sporadicamente un silenzio trentennale, durato sino alla morte, giunta nel 2001.

Eppure, forse non se n’era neppure accorto, ma Fred Neil aveva aperto un sentiero che molti altri, nel futuro più o meno lontano, avrebbero percorso.

2. TIM HARDIN, LA PECORA NERA

Erano in tanti, in quei primi anni Sessanta, a frequentare quelle stesse tavole di quegli stessi locali di New York dove Fred Neil dava lezioni a tutti, Bob Dylan compreso. Erano in tanti ma i più restavano anonimi raschia-chitarre in fuga dalla vita vera, gente senza talento che la macina del tempo avrebbe frantumato e consegnato alle muffe del dimenticatoio. Ce n’era uno, però, che non poteva passare inosservato.
Diceva di essere un pronipote del bandito John Wesley Hardin, uno dei fuorilegge simbolo d’America, un emblema degli eterni desperados che vagavano gli Stati Uniti soffiando sul fuoco della controcultura (e che da quello stesso fuoco sarebbero rimasti bruciati). Già questo bastava per renderlo diverso da tutti. In più era stato nel corpo dei marines, spedito a diciotto anni a marciare fra le paludi dell’Indocina, fra Laos, Cambogia e Viet Nam, a preparare il terreno alla follia della guerra più lunga e più assurda dalla resa del 15 agosto 1945. Laggiù, fra una tappa forzata e l’altra, tra acquitrini e durezze assortite della vita militare, avrebbe scoperto un nemico con cui combattere tutta la vita. Un nemico più bastardo delle Sirene di Ulisse: l’eroina. Poteva essere lui il Sam Stone qualsiasi cantato pochi anni dopo da John Prine, nel suo inno malinconico dedicato ai reduci che tornavano imbottiti di sostanze chimiche, unico viatico per reggere le pressioni e gli sconvolgimenti psicologici causati dalla “sporca guerra”.
Ma, allo stesso tempo, nelle sere afose passate all’addiaccio aveva imparato a suonare la chitarra, proprio come Johnny Cash durante il suo periodo di ferma in Germania ed aveva scoperto una vocazione da narratore ed era stato folgorato dalle storie oscure dei vecchi blues.
Così, non appena tornato in America, all’inizio degli anni Sessanta, il passo per giungere al Greenwich Village fu breve. Là si iscrive all’Accademia di arte drammatica newyorchese ma durerà ben poco. I ritmi e gli impegni che gli studi richiedono non si conciliano con una vita sregolata e notturna, in cui l’alba sorprende Tim ogni mattina in un locale diverso.
Però qualcosa si muove. Hardin ha trovato un amico che se lo è preso sotto a cuore. Quell’amico è proprio Fred Neil, l’austero Fred Neil, che ne aveva intuito prima di tutti il talento e sapeva che i pericoli per Tim non arrivavano dalla concorrenza degli altri folk singer ma dai suoi stessi demoni che lo rodevano dall’interno. Di lui si era accorta anche la Columbia, che dopo Bob Dylan cercava di mettere a segno il suo secondo colpo nel mondo del folk revival. Ma ben presto si accorse che da quel cantautore poteva cavarci ben poco. Non aveva la visionarietà di Bob Dylan né una visione politica articolata come Phil Ochs. Non aveva neppure un aspetto particolarmente affascinante o magnetico. E soprattutto, la sua musica suonava troppo cupa e riflessiva, troppo ripiegata a scavare nelle proprie inquietudini. Un po’ troppo inaccessibile, in un epoca di acceso “positivismo musicale”. Gli spari di Dallas non avevano ancora raggiunto il cuore dell’America e in mezzo a tutta quella gente impegnata a cambiare il mondo Hardin sembrava un vero e proprio fantasma.
Quelli della Columbia non ci misero molto a scaricarlo senza grossi rimpianti, nonostante i buoni uffici sui quali Hardin poteva contare fra i colleghi. Aveva registrato alcuni demo con un piglio folk-blues (fra cui, guarda caso, una Blues on the ceiling scritta proprio da Neil) ma senza alcun esito vero. Sarebbero stati riesumati qualche anno dopo, neppure allora con grosso successo.
Gli schiaffi subiti a New York segnarono ulteriormente un animo già inquieto e pronto a rifugiarsi nella bottiglia per sfuggire alla dura realtà dei fatti. Così, sdegnato di tutto, Tim fece i bagagli ed attraversò l’America, destinazione California, per provare a far ripartire la propria vita e la propria carriera. Incontrò Susan Yardley, un’attricetta da soap opera, e la sposò quasi subito, facendone la sua musa ispiratrice. E subito sgorgarono le canzoni. Una più bella dell’altra: Reason to believe, It’ll never happen again, Part of the wind, Misty roses, If I were a carpenter, You upset the grace of living when you lie e The lady came from Baltimore (a parere – molto parziale – di chi scrive, la più bella canzone mai scritta) si stagliavano su tutte. Di fronte ad un tale stato di grazia compositiva, Hardin rimediò un nuovo contratto, questa volta con la Verve Forecast. Prese Susan, nel frattempo rimasta incinta, e saltò di nuovo ad Est, stabilendosi nei pressi di New York.
Tra il 1966 ed il 1967 uscirono i suoi due primi veri album, intitolati semplicemente Tim Hardin e Tim Hardin 2. Le canzoni erano in gran parte dei sognanti bozzetti folk con vaghe ascendenze jazz, malinconiche, concise e dirette, che toccavano l’intera gamma di emozioni dell’animo umano. Peccato solo per un po’ di orchestrazioni posticce che appesantivano brani che avrebbero necessitato di tutt’altra semplicità. Qualcuno si accorse di lui. Il suo repertorio fu saccheggiato da altri artisti. Il cantante pop Bobby Darin portò If I were a carpenter fino alla posizione 8 della classifica dei singoli. La critica incensò quegli album seppure non ancora perfetti.



L’apoteosi artistica arrivò però nel 1968. Tim Hardin aveva notoriamente paura del palcoscenico, paura amplificata dalle proprie dipendenze da alcool e droghe, da cui tristemente non si era mai liberato veramente. Era anche restio ad esibirsi accompagnato da una band, un po’ perché i concerti in acustico erano più redditizi (e, si sa, è difficile mantenere economicamente i propri vizi e una famiglia allo stesso tempo), un po’ perché la sua instabilità rendeva difficoltose le prove e il crearsi di una sinergia col gruppo. Tuttavia la Verve gli mise a disposizione una band eccezionale composta da jazzisti di prim’ordine, fra cui spiccavano Eddie Gomez, storico bassista nel trio di Bill Evans, il pianista Warren Bernhardt, pupillo di Evans e collaboratore di Kenny Burrel e Gerry Mulligan, e soprattutto lo straordinario vibrafonista Mike Mainieri, uno dei più grandi virtuosi dello strumento, il cui tocco avrebbe contribuito a dare le pennellate musicali più marcate e splendenti alle canzoni di Hardin.
Quella sera del 10 aprile 1968, alla Town Hall di New York, Hardin arrivò in forma strepitosa, nonostante le pochissime prove con il gruppo, che si trovò ad improvvisare quasi tutto in corso d’opera (un po’ come avvenne per i musicisti che, pochi mesi dopo, avrebbero dato vita a quel capolavoro rispondente al nome di Astral Weeks assieme a Van Morrison. Ma questa è un’altra storia).
I brani di Tim si libravano in volo, liberati dalle catene degli arrangiamenti in studio. Una dietro l’altra, Lady came from Baltimore, Reason to believe, e via andare, in un lungo e appassionato stream of consciousness musicale. La Verve ne ricavò un disco dal vivo, intitolato Tim Hardin III Live in concert, che rimane ancora oggi una pietra miliare insuperata nella storia della canzone d’autore americana. Le vendite non furono entusiasmanti ma neppure troppo scarse, e soprattutto le sue canzoni venivano costantemente reincise da altri artisti, da Johnny Cash in poi.
Il treno sta passando. Pare che il grande salto verso l’Olimpo sia solo una questione di formalità. Eppure qualcosa si rompe. Hardin è sempre più preso dalle proprie dipendenze e dalle proprie paure. Non riesce più a scrivere canzoni, sembra in stasi creativa. Spesso torna a casa ubriaco e si lascia andare ad episodi di violenza nei confronti della moglie. In lui convivono due uomini:il poeta, per cui Susan è la Musa ispiratrice, l’Angelo, il faro dell’esistenza, ed il tossico, violento e senza più freni inibitori. Si esibisce perfino a Woodstock, ma in pochi si accorgono di lui. Colpa anche di un set viziato da un’evidente ubriachezza.
La Verve lo scarica, preoccupata dalle sue condizioni umane ed artistiche. Lo riprende quasi subito la Columbia che, ironia della sorte, era stata la prima a fargli firmare un contratto e a lasciarlo quasi immediatamente a piedi. Suite for Susan Moore and Damion: we are one, one, all in one è il primo lavoro per l’etichetta. Un lungo e solipsistico inno alla moglie e al figlio, composto da brani lunghi e complessi, dal pochissimo appeal commerciale. Nelle pieghe di questo disco, una vera e propria seduta psicanalitica, emergevano tutti i sensi di colpa di Hardin nei confronti della propria famiglia, che esorcizzava scrivendo veri e propri inni laici di lode ai propri cari.
Le cose precipitano. Tim è sempre più schiavo dei propri demoni. Susan se ne è andata, esasperata, portandosi dietro il figlio. La Columbia, a fronte del fallimento, è perplessa ma è pronta a dargli un’altra chance. La sua etichetta gli mette a disposizione una pletora di ottimi musicisti, fra cui Joe Zawinul e Miroslav Vitous dei Weather Report. Hardin lascia tutto in mano al produttore Ed Freeman e si limita a cantare per lo più brani altrui. Esce Bird on a wire, dove nonostante tutto la title track, noto brano di Leonard Cohen, diventa una ballata soul da togliere il fiato, anche per la straordinaria interpretazione vocale. Il resto, a parte un brano autobiografico, Andre Johray, che commuove più per la storia che si legge fra le righe che per il risultato musicale, è un disco valido ma che risente fortemente della totale disconnessione del suo autore dal mondo. Superfluo dire che, a livello di vendite, anche questo disco è un fallimento.
Tim Hardin si trasferisce in Inghilterra. Ma in Inghilterra l’interesse principale dell’artista non è la musica bensì il metadone, fornito dal servizio sanitario nazionale britannico. Lì, la Columbia gli concesse l’ultima opportunità, con le modalità del disco precedente. Tim si sarebbe limitato a incidere le parti vocali. Stavolta fra i musicisti spiccano Peter Frampton ed Alun Davies, chitarrista storico di Cat Stevens. Painted head, l’album che ne consegue, è uno sbiadito ritratto di un artista che non c’è, un collage di parti sovrapposte e che nulla rappresentano della grandezza autoriale di Tim Hardin. Inevitabile la rescissione del contratto.
Seguì un ultimo album, Nine, rilasciato per una piccola etichetta inglese, patetico tentativo di inseguire i terreni di certo blues rock radiofonico alla Joe Cocker, nel quale però spicca una sofferta e finalmente autografa Shiloh Town, che sarà esaltata qualche anno dopo da una maestosa versione da Mark Lanegan.
Poi fu un progressivo isolamento dal mondo, fino ad una fine ampiamente prevista e forse anche cercata, giunta nel 1980 per overdose di eroina. Eppure, nonostante tutto, come reca l’iscrizione della sua lapide, “Tim Hardin ha sempre cantato dal profondo del cuore”.

(…continua…)