martedì 14 dicembre 2010

THE PROMISE




Johnny works in a factory and Billy works downtown
Terry works in a rock and roll band lookin' for that million-dollar sound
And I got a little job down in Darlington but some nights I don't go
Some nights I go to the drive-in or some nights I stay home
I followed that dream just like those guys do way up on the screen
And I drove a Challenger down Route 9 through the dead ends and all the bad scenes
And when the promise was broken, I cashed in a few of my own dreams

Già, ci credi, ci credi come se fosse l'ultima cosa al mondo da fare, o meglio, l'unica. Johnny, Billy, Terry, tutti gli amici intorno lavorano duro, qualcuno perché c'è il pane da portare a casa, qualcuno perché crede solo in quello. Qualcun altro, invece, segue il proprio sogno. TU segui il tuo sogno. Sì, è vero, un lavoro ce l'hai, ma ti basta? No, ragazzo, te lo dico io: quel cazzo di lavoro non ti basta affatto. C'è da inseguire qualcosa di misterioso, qualcosa di più grande, qualcosa che assomiglia a quelle scene dei film che guardi là al drive in, quelle notti in cui decidi di non andare a ruscare duro ma te ne vai ad inseguire qualcosa, una promessa non meglio identificata. Un sogno. Forse, però è troppo attraente per essere solo immaginario. Per cui ci dai dentro, sali su quella macchina – d'altronde, l'hai detto tu stesso, è quella che hai barattato per le tue ali – e via, ad inseguire quel qualcosa. A quella macchina ci sei affezionato, vero ragazzo? Le sue portiere sembrano le porte di un'altra dimensione, dove tutto ha il fascino di qualcosa di nuovo da scoprire. Ma che cos'è che cerchi? Che cosa cerchi in mezzo a quello stridore di ruote, in mezzo a quelle immagini in bianco e nero, in mezzo a quella gente, in mezzo a quelle ragazze? Semplice, cerchi quella promessa. Cerchi te stesso, in fondo. Ma quella promessa, che cos'è? Ci puoi buttare dentro tutti i tuoi sogni, sicuro che non slittino e poi spacchino come il vetro della tua Challenger, quella volta che hai preso la curva troppo veloce e sei finito fuori strada?

Well now I built that Challenger by myself but I needed money and so I sold it
I lived a secret I should'a kept to myself but I got drunk one night and I told it
All my life I fought this fight, the fight that no man can ever win
Every day it just gets harder to live this dream I'm believing in
Thunder Road, oh baby you were so right
Thunder Road, there's somethin' dyin' down on the highway tonight



E così, ragazzo, l'hai venduta. Quella macchina era tutto per te, l'avevi messa insieme pezzo per pezzo, ci avevi buttato l'anima là dentro. Però la situazione è più grigia di quello che immaginavi. Avevi il tuo segreto, ma quella notte eri troppo esaltato per tenertelo dentro, e l'hai gridato ai quattro venti. E ora, dimmi, dimmi che cosa ti rimane in mano. Amico, lo so come ci si sente quando tutto ti rema contro, quando combatti fino a farti sanguinare le mani, quando ci metti tutto te stesso, tutta la forza di cui sei capace e forse anche di più e poi non concludi nulla. E resti lì, magari aspettando che squilli un telefono, che lei ti chiami, che succeda qualcosa che spezzi di colpo le catene dei tuoi pensieri. E invece nulla. Come fai a credere ancora a quei cazzo di sogni, a pensare che si possano vivere davvero. Eppure non molli, eppure ci provi, eppure continui imperterrito a sbatterci la testa, a prenderli a muso duro. La tua lotta sta diventando una lotta per la vita. Qualcuno, qualcuno in cui tu hai sempre creduto, chiedeva come ci si sente senza destinazione o casa, come un perfetto sconosciuto, come una pietra che cade giù e non può fermarsi se non sbattendo con violenza contro qualcosa d'altro. E ora cominci a capirlo. E a volte ti mancano le forze, però in qualche modo, non sai nemmeno tu come o perché, vai avanti, dritto, dietro al tuo sogno. Però, lo capisci anche tu, il tuo cuore funziona ancora, sai che qualcosa non torna. Cominci a capire che quella battaglia non la può vincere nessun uomo, neppure quegli eroi che guardavi con gli occhi sgranati al cinema fino a qualche giorno fa. Cominci ad accorgerti che qualcosa sta morendo, sta appassendo, che in fondo aveva ragione lei ad avvisarti. D'altronde, il più bel fiore del mondo, se lo sradichi dalla terra su cui è nato per stare, appassisce quasi subito. E tu, ragazzo, ora cominci ad accorgertene. La vecchia strada del tuono è diventata scivolosa adesso. C'eri arrivato perché ti sembrava la strada verso la vittoria, verso la tua redenzione, ma ora ti sembra solo un vicolo cieco, un altro fottutissimo vicolo cieco. Ma continui, perché in fondo oramai che cosa hai da perdere?

I won big once and I hit the coast, oh but somehow I paid the big cost
Inside I felt like I was carrying the broken spirits of all the other ones who lost
When the promise is broken you go on living, but it steals something from down in your soul
Like when the truth is spoken and it don't make no difference, somethin' in your heart turns cold
Thunder Road, for the lost lovers and all the fixed games
Thunder Road, for the tires rushing by in the rain
Thunder Road, remember what me and Billy we'd always say
Thunder Road, we were gonna take it all then threw it all away

In fondo all'inizio ti sembrava che il Destino fosse dalla tua parte. Ti sembrava di avere finalmente trovato la tua strada, di essere uscito trionfalmente da quella città di perdenti che ti eri lasciato alle spalle. Ma dimmi, cosa hai in mano adesso? Hai due soldi in più, magari, hai quello che prima avevi magari soltanto vagheggiato. Eppure ti basta? Te lo dico io, non ti basta. E' così, non ci puoi far nulla. Anzi, adesso sulle spalle hai anche il peso delle anime di quelli che hai incontrato sulla strada, come se non fosse già abbastanza faticoso portare il peso della tua, di anima. Loro sono come te, hanno i tuoi stessi desideri e la tua stessa inquietudine. La stessa identica tristezza. E tu vorresti togliergliela di dosso, ma come fai se non riesci a sopportare più nemmeno la tua? Dimmi, quella promessa era veramente reale? Piano piano qualcosa si sta spezzando dentro di te, e non riesci nemmeno a trovare i cocci per rimetterlo insieme. Certo, continui a vivere, ma è per inerzia, è come se tutto ti passasse addosso, gocciolasse via poco a poco come acqua dalle mani. E arrivi al punto che nemmeno più il Vero può scalfire il marmo dei tuoi pensieri. Non te ne rendi più conto, sei come narcotizzato, cauterizzato da quella bruciatura che ti hanno lasciato le tue promesse quando sono esplose senza preavviso. Il tuo cuore si è raffreddato, dici. Ma è proprio vero? E allora perché cazzo scrivi queste cose? Ne sei proprio sicuro? Anch'io sono come te, anch'io ho quel peso che mi prende al petto tutti i giorni. E ti capisco, ti capisco eccome. Il telefono è ancora lì muto, anche se tu aspetti che quel vecchio amore ti chiami una santa volta. Le gomme slittano, è tutto bagnato ed oramai è diventato quasi impossibile tenere la strada. Sì, tu e Billy lo dicevate sempre, che sareste arrivati a tenere in mano il mondo intero ma nemmeno questo vi sarebbe bastato, e così lo avreste buttato via con le vostre stesse mani. Eppure, nonostante tu non voglia ammetterlo, a quella promessa sotto sotto ci credi ancora. E quel fuoco che ti aveva portato via da casa tua brucia ancora sotto la cenere delle tue delusioni. E d'altronde, anche se non ce la fai ad ammetterlo, quella promessa è ficcata dentro di te. Ed anche dentro di me. Perché la nostra domanda in fondo è sempre la stessa. Forse qualcuno ci ha promesso qualcosa? E allora perché aspettiamo?


mercoledì 8 dicembre 2010

THE HOURS OF MY CRYIN' DAY: JUDEE SILL E LAURA NYRO

Il fenomeno dei singer-songwriters degli anni '70 è genericamente identificato nell'immaginario comune con la figura del cantautore, mediamente triste e/o sfigato ed accompagnato dalla sua chitarra acustica, quasi fosse una seconda pelle. Dal Village alla California, dal Canada al Texas in effetti, nel lustro fra il 1970 ed il 1975, migliaia e migliaia di artisti uscirono allo scoperto, portandosi dietro le proprie canzoni e poco altro. Molti di essi erano certo piuttosto anonimi, nonché decisamente autoreferenziali, mentre molti erano dotati di un talento fuori dal comune che sarebbe talora emerso anche agli occhi del grande pubblico. I nomi da fare sarebbero decisamente troppi, e soprattutto si ridurrebbero ad un mero elenco catalogico senza alcuna reale utilità né significato. Tuttavia, fino al '75, anno in cui sul campo (ri)entrò potentemente un certo signor Dylan con un certo album chiamato Blood on the tracks, sbaragliando integralmente la concorrenza, il mondo del rock dovette fare i conti con una generazione non più rivolta ad un tentativo di cambiamento sociale o politico ma più ripiegata ad osservarsi nel proprio intimo. E la base di questa riflessione era costituita dal vecchio modello della canzone folk, alla quale però venivano tolte quelle asprezze tipiche del periodo Greenwich Village, magari contaminandolo con un po' di atmosfere jazzy o un pizzico di country. Certo, non mancavano le eccezioni, artisti che da una base folkie spaziavano cercando territori ancora inesplorati, ma erano per l'appunto delle rarità. Tuttavia alcune di queste eccezioni si distinguevano per un tratto peculiare comune: l'appartenenza al mondo femminile. Le donne in musica della prima metà degli anni settanta (o perlomeno molte di esse) avevano in comune una tensione artistica, una ricerca sottile ed un'insofferenza per gli stretti canoni in cui la forma-canzone tendeva a ripiegarsi sempre più. A ciò, andava aggiunto l'effetto di ritorno della “liberazione sessuale”, concetto cardine della cultura dei sixties, che permise a molte di queste signore della canzone di liberarsi dalle gabbie del perbenismo e di potersi soffermare a narrare dei propri sentimenti più profondi senza troppa paura di un giudizio altrui. Uno dei modelli restava Janis Joplin, certo, e soprattutto per la sincerità disarmante con la quale la cantante texana raccontava la propria vita sui palchi d'America, mettendo in scena la propria medesima autodistruzione.


La cantautrice la cui vita assomigliava più a quella della Joplin era certamente Judee Sill, una figura di grande portata drammatica e la cui notorietà restò sempre confinata in una nicchia ristretta, per lo più composta da addetti ai lavori. Californiana, classe '44, la sua storia è una storia violenta e disperata, fatta di droga, incidenti stradali, arresti, drammi personali e chi più ne ha più ne metta. La musica, ed in particolare il pianoforte, l'apprende fra collegi e riformatori, sviluppando uno stile profondamente influenzato tanto dal gospel quanto da Johan Sebastian Bach. La chitarra ed il folk li aveva già appresi in casa, da piccola, da un padre morto troppo presto, lasciando Judee e sua madre ad affrontare i fantasmi della propria vita con l'ausilio di massicce dosi di alcool e droghe. Così, senza nemmeno accorgersene, l'innocenza di Judee Sill se n'era volata via, spazzata da rapine per procurarsi i soldi per la droga ed esperienze al limite dell'umano, come la prostituzione. Eppure, a sentire la sua musica, non si può fare a meno di sorprendersi dalla purezza e dalla delicatezza trasparente da ogni nota. I testi, poi, sono dei piccoli bozzetti personali e pieni di immagini bibliche di cadute e ricerca di quella redenzione di cui la Sill pare aver bisogno come dell'aria per respirare. Judee non amava esibirsi dal vivo, proprio per la sua paura atavica di mostrarsi nuda nella sua vera essenza davanti ad un pubblico che avrebbe potuto non capirla, e si richiudeva sempre più nel suo autodistruttivo isolamento. Il suo talento, tuttavia, non poteva passare inosservato, specie ad uno di quei discografici “illuminati” che ancora anteponevano la passione agli interessi economici (abitudine che, ahinoi, durò per poco): David Geffen. A presentarle la Sill ci pensò Graham Nash, per il quale la ragazza aveva suonato le tastiere e Geffen non perse tempo, facendole firmare un contratto per la sua etichetta nuova di zecca. L'album omonimo della cantautrice fu il primo uscito per il catalogo della Asylum e rappresenta ancora oggi un capolavoro misconosciuto ma purissimo, lontano anni luce dagli stilemi folkeggianti dell'epoca, dai cui solchi traspariva una tristezza (che, come disse qualcuno, è il contrario della disperazione) ed una domanda esistenziale senza fine. Il secondo disco, Heart food, uscì poco dopo e fu un altra gemma assoluta, in cui le atmosfere più folk dell'esordio lasciavano spazio a geometrie più complesse, il pianoforte prendeva il posto della chitarra ed alle melodie della tradizione americana si sovrapponevano echi di musica sacra e colta. Purtroppo di lei si accorsero in pochi, troppo pochi, e nel giro di un battito d'ali, Judee Sill scomparì dalla circolazione, sempre più smarrita a causa delle proprie intime paure, che sfociavano in dipendenze assortite da alcool, droga e farmaci, fino al tragico epilogo di una morte per overdose non si sa quanto accidentale o quanto cercata. Rimangono le sue canzoni, richieste d'aiuto vere e proprie, che trovano una sintesi in quel “Kyrie Eleison” ripetuto allo spasimo in una delle sue canzoni più dolorosamente belle, “The donor”.

O waters of the moon
Your vapors swirls and swoon
Your wake is wide...
And sorrow's like an arrow
Shootin' straight and narrow
Aimin' true, it's sting goes
Reachin' to the marrow,
Silence cried...

Now songs from so deep,
While I'm sleepin',
Seep in...
Sweepin' over me
Still the echo's achin'
"Leave us not forsaken"

Kyrie eleison, kyrie eleison
Kyrie eleison, eleison,
Eleison, eleison
Kyrie eleison, kyrie eleison
(The donor)

In fondo anche Laura Nyro condivideva con Judee Sill alcuni tratti fondamentali. Stessa voglia di rompere gli schemi musicali dei soliti tre accordi prima-quarta-quinta, stessa idiosincrasia nei confronti dello show-business, stessa tendenza all'utilizzo della canzone come uno strumento di autoanalisi, quasi psicanalitica, anche lei scoperta da David Geffen. Se Judee Sill pescava dalla tradizione classica europea, l'orizzonte di Laura Nyro, nata Nigro da genitori italo-americani, era quello del jazz e della musica nera, soprattutto nella prospettiva “liberata” e spirituale che emergeva dai solchi di John Coltrane. Ma se la ricerca spasmodica di Judee Sill si traduceva all'atto pratico in un atteggiamento di autodistruzione, Laura Nyro cercava le sue risposte esistenziali dentro all'arte, immergendosi in essa fino a coinvolgere ogni propria singola cellula, ogni atomo di cuore e cervello, ogni muscolo ed ogni organo sensoriale. Il suo debutto discografico risale al 1966. Età: diciassette anni, ma potrebbe averne trentacinque o centoventi, tanto la sua musica suona matura e senza tempo, lontana anni luce dagli stilemi della musica leggera di quegli anni. L'anno dopo è sul palco del Festival di Monterrey, quello che avrebbe lanciato nell'olimpo Janis Joplin e Jimi Hendrix. Tuttavia, un atavico terrore del palco, unito ad una band eufemisticamente mediocre, penalizzarono non poco una performance che avrebbe potuto far salire anche lei agli onori delle cronache. Ma probabilmente, tutto questo a Laura non interessava nemmeno troppo. A lei interessava continuare a fare musica principalmente per se stessa, esorcizzando la propria solitudine, le proprie idiosincrasie e i propri tormenti interiori sul pentagramma. Il primo capolavoro giunse proprio nel 1967, con Eli and the thirteenth confession, uno strano amalgama di song di impianto broadwayano ed echi soul-jazz, il tutto intessuto da una vocalità particolarissima ed irrequieta, sempre pronta a lanciarsi in volo per poi picchiare verso il basso ed impennarsi ancora improvvisamente, quasi senza alcun controllo. Anche i testi erano manifesti di inquietudine, di ricerca, visioni prettamente femminili (e talvolta femministe, come spesso rivendicato dalla stessa artista), vere e proprie confessioni in musica, talmente personali da sembrare quasi autoreferenziali. Ma è con il successivo New York Tendaberry che Laura confeziona il suo capolavoro. Più scuro, più difficile, forse ancora più personale, la Nyro arriva a forgiare canzoni sempre più articolate, non di facile presa ma di fascino incommensurabile. L'artista di New York Tendaberry è un'artista strutta dai propri dubbi e dalle proprie insicurezze, attratta dal peccato ma allo stesso tempo anelante ad una redenzione, torrenziale nel proprio flusso di coscienza creativo, sospesa fra il desiderio di una stabilità ed il richiamo delle novità e della scoperta, come in “You don't love me when I cry”, con il grido finale “Andrò! Resterò!”, segno di una intima contraddizione non mai risolta.





Two mainstream die

You don't love me when I cry
Have to say goodbye

I don't want to say goodbye

Baby goodbye


And Mister I

I got funky blues

All over me
Such tender persuasion

I want, I want to die
You don't love me when I cry
Made me love to play
Made me promise I would stay
Then you stayed away

Mister I
I got drawn blind blues
All over me
Rubies and smoke rings
No no No you NO NO NO

I will go
I will stay
In the hours of my crying day
In the hours of my crying day
In the hours of my crying day
In the hours of my crying day, ah hey
In the hours of my crying a day, uh hey hey

(You don't love me when I cry)

Ma la bruciante passione della Nyro era destinata a consumare in fretta la candela della creatività, così, dopo un album piuttosto deludente, Christmas and the Beads of Sweat, datato 1970, il 1971 fu l'anno dell'ultimo colpo di coda. Gonna take a miracle era il disco più nero che una donna bianca avrebbe mai potuto realizzare. Per l'occasione, Laura chiamava a raccolta il team vocale di Patti LaBelle e metteva l'uno affianco all'altro dieci classici della black music, di impronta decisamente Motown, pescando nel repertorio di Smokey Robinson, Marvin Gaye, Curtis Mayfield e tanti altri ancora. Il risultato fu spettacolare ma, purtroppo, fu anche l'epitaffio di una grandezza artistica di cui da lì in poi si sarebbero perse le tracce. Alla fine dell'anno, la Nyro annunciava il ritiro dalle scene, a soli 24 anni, stanca dello show-business e di tutto ciò che alla musica stava intorno e musica non era. Negli anni successivi poi, l'artista tornava più volte sui propri passi, rientrando e scomparendo ciclicamente, segno che il vecchio carattere tormentato non poteva essere scalfito neppure dal tempo. Quattro album e due live in vent'anni, nessuno dei quali riuscì a raggiungere i picchi degli anni precedenti. Poi la malattia ed una morte prematura, per lo stesso male che si era portato via sua madre trent'anni addietro. L'anima inquieta della Nyro però rimane ancora viva, come l'albero che aveva fatto piantare fuori dalla sua finestra nelle sue ultime settimane, a testimoniare che l'arte sopravvive anche alla morte.

Can you surry, can you picnic more?
Can you surry, can you picnic?

C'mon, c'mon and
Surrey down to a stoned soul picnic
Surrey down to a stoned soul picnic
There'll be lots of time and wine

Red, yellow, honey, sassafrass and moonshine
Red, yellow, honey, sassafrass and moonshine

Stoned soul
(Stoned soul)
C'mon, c'mon and
Surrey down to a stoned soul picnic
Surrey down to a stoned soul picnic
Rain and sun come in again

And from the sky come the Lord and the lightning
And from the sky come the Lord and the lightning

Stoned soul
(Oh stoned soul)
Surry on, soul

Surry, surry, surry, surry

There'll be trains of blossom
(There'll be trains of blossom)
There'll be trains of music
(There'll be music)

There'll be trains of trust, trains of golden dust
Come along, surry on, sweet train of gold
Surry on down

Can you surry, can you surry?
(Can you surry?)

Surry down to a stoned soul picnic
Surry down to a stoned soul picnic
(Can you surry? Can you picnic?)
There'll be lots of time and wine

Red, yellow, honey, sassafrass and moonshine
(Red, yellow, honey)
Red, yellow, honey, sassafrass and moonshine
(Moonshine)

Stoned soul, yeah
Surry on, soul

Surry, surry, surry, surry
Surry, surry, surry, surry!

(Stoned soul picnic)

martedì 7 dicembre 2010

BLUE VALENTINES...




Tom Waits e Rickie Lee Jones, al tempo in cui c'erano i vinili. Era un giorno vago del 1978 o giù di lì. Il posto? Chissà...una bettola della California in fondo vale l'altra. Lui, Tom, era un duro, uno di quelli veri, mica ostentava chissà quale machismo, come fanno i divi d'oggi. Lei, bella e dannata, si poteva permettere il fottutissimo lusso di farsi ritrarre con un sigaro in bocca sulla copertina del suo primo album. Altri tempi. Sicuramente non paragonabili ad oggi. Tom era alla prova del nove. Aveva fatto uscire già cinque dischi, di cui uno strampalato live in cui snocciolava le sue "previsioni del tempo emotivo", decantava le gesta di strani autostoppisti metafisici e celebrava l'autosufficienza rifuggendo quelle che qualcuno, pivellino, chiamava "gioie matrimoniali". Aveva perfino cambiato voce, come non si sa. Ora sembrava un vecchio negro uscito da un fumoso locale jazz con una bottiglia sotto il braccio e la testa nella luna. Raccontava storie che sembravano rubate qua e là dai quaderni di appunti di Jack Kerouac ma ammantandole di un romanticismo sognatore e di un'ironia ai limiti del paradosso. Aveva incontrato Rickie Lee, che era diventata quasi subito la sua donna, ed entrambi giravano insieme ad uno strano personaggio che suonava la batteria con Howlin' Wolf e Willie Dixon ed amava alla follia Louis Jordan, il tabacco ed il Southern Confort. Ma questa è un'altra storia.
Insomma, Tom era alla prova del nove. Non era ancora quell'istrione patafisico avvezzo a giocare con pesci spada-tromboni, cani della pioggia, macchine di ossa e variazioni di muli. Tom aveva i blues come non mai, lo si vedeva in quella foto di copertina, lo si sentiva nel suo tocco di piano. Ma era anche l'uomo capace di sbattere la propria donna sopra il cofano di una vecchia cadillac. Le sue erano lettere di San Valentino, certo, ma erano lettere tristi, erano cartoline spedite da un pappone di Minneapolis, erano dollari volanti e racconti di strade sbagliate, direzione qualche parte, verso la Kentucky Avenue. Erano storie articolate, profonde, a volte grottesche, a volte surreali, a volte perfino brutali, di dolci proiettili e di ragazze senza nulla sotto i jeans. Poi, quando meno te lo aspetti, ecco giungere come una coltellata alla schiena ballate nostalgiche come non se ne erano mai sentite prima, fra temi da West side story e storie di spogliarelliste sì, ma con un cuore vero nel petto, pur mascherato da una gran fornitura di tette. Insomma, ne venne fuori un vero e proprio romanzo, tipicamente americano, capace di mozzare il fiato e, nonostante tutto, nonostante l'umanità spesso devastata che popolava le sue storie, profondamente intriso da uno spirito sognatore, come poche altre volte è capitato di sentire.
Le cose sarebbero cambiate in fretta. Rickie Lee se ne sarebbe andata presto, il batterista avrebbe continuato la sua caotica esistenza, un'altra donna, Kathleen, avrebbe attraversato la strada di quello strano uomo californiano. Certo, i capolavori sarebbero arrivati anche dopo (qualcuno potrebbe anche dire “soprattutto” dopo). Quello che però non sarebbe mai ritornato è lo spirito notturno, malinconico e fumoso di queste lettere chissà da dove spedite e dirette a chissà chi.

lunedì 6 dicembre 2010

LE SEDIE DA SPOSTARE







[Al centro della scena buia una sedia illuminata. Voce fuori campo:]
a) Secondo me quella sedia lì va spostata.
b) Anche secondo me quella sedia lì va spostata.
a) Facile dirlo quando l'han detto gli altri. 
b) Se è per questo sono anni che lo dico e nessuno mi ascolta.
a) Da una approfondita analisi storica e sociologica viene fuori che quella sedia pesa dai nove ai dieci chili.
b) Non sono d'accordo. Dai sondaggi il 2% degli intervistati dice che pesa dai cinque ai sei chili, il 3% dai sei ai sette chili, il 95% non lo so e non me ne frega niente. Basta che la spostiate.
a) Secondo me per spostarla bisognerebbe prenderla con cautela per la spalliera e la metterla da un'altra parte. 
b) Eccesso di garantismo. Al punto in cui siamo non resta che affidarsi a una figura autorevole e competente, forse un tecnico. Magari di destra appoggiato dalle sinistre. (*)
a) Un tecnico? No, un tecnico non può garantire la stabilità della sedia e poi costituisce un'anomalia antidemocratica e anticostituzionale. (*)
b) Se è così cambiamo la Costituzione.
a) Non è una cosa che si può fare da un giorno all'altro. Nel frattempo propongo di indire un referendum.
b) Non si troveranno mai 500.000 firme per spostare una sedia.
a) E allora non c'è scelta: elezioni anticipate.
b) No, le elezioni oggi no. Sarebbe troppo grave per il Paese. Forse domani.
a) Rimane il problema urgente della sedia da spostare.
b) Su questo sono d'accordo. Può essere un punto di incontro.
a) Parliamone.
b) Parliamone.
a) Parliamone.
b) Parliamone.


(Giorgio Gaber - Sandro Luporini)




C'è un che di paradossalmente attuale in questo monologo...che ancora una volta Gaber avesse visto le cose con quindici anni d'anticipo?

giovedì 2 dicembre 2010

SINGERS OF SONGS – Un ipotesi di percorso alla scoperta dell'arte della cover

Si può voler bene ad una canzone? Una canzone è un'entità molto particolare, difficilmente definibile con parole semplici, che spesso condensa un'intera vita in pochi minuti, a cui nessuno può sfuggire, per l'immediatezza con cui si insinua nei meandri della mente di ogni ascoltatore, compresi i più distratti. Resta il problema: si può voler bene ad una canzone, esserci attaccati fino a riversarci dentro una consistente parte di se stessi? Una risposta affermativa viene probabilmente dalle tonnellate di cover registrate ed interpretate sia all'inizio della carriera, sia nel pieno del percorso artistico di moltissimi artisti di livello eccelso. L'arte della cover è un'arte sottile e difficilissima da maneggiare, di cui spesso si fa uso per supplire a mancanza di ispirazione o, peggio, per motivi di purissimo calcolo economico. Sono proporzionalmente pochissimi i casi in cui la cover riesca meglio dell'originale, intendiamoci, però ogni tanto (neanche troppo infrequentemente, invero) capita di rimanere folgorati dalla passione infusa dentro l'interpretazione di una canzone particolarmente amata ma purtroppo non propria.

Spesso alle cover si fa ricorso agli albori di un'avventura musicale, quando il proprio repertorio non si è ancora consolidato o non si possiedono ancora solide basi su cui costruirlo. In questa parabola ci sono passati tutti i più grandi: i Rolling Stones ed i Beatles hanno iniziato da basi molto vicine, con proprie versioni di classici del rock and roll raccattate a piene mani da personaggi come Chuck Berry e Bobby Vee, per poi saltare verso un repertorio più soul-blues, ispirato a Don Covay, Solomon Burke e Arthur Alexander, oltre ai dischi della Chess, i primi, mentre i secondi maturavano più velocemente la propria vocazione compositiva. Lo stesso Bob Dylan, che unanimemente si considera come il più grande autore di sempre, cominciò la sua lunga strada apprendendo il più possibile i rudimenti del folk da vecchi brani tradizionali e dalle composizioni di Woody Guthrie, così come Paul Simon (che oltre ai traditionals, nel primo album con Garfunkel reinterpreta proprio Dylan). Elton John ha cominciato interpretando Nick Drake (chi non possiede il bootleg Nick Drake Session, corra a procurarselo al più presto), Van Morrison con i suoi Them si è affidato a Muddy Waters, e così via ad oltranza. Insomma, la storia del rock sembra dirci che senza una buona base alle spalle non è possibile costruire nulla di concreto, così come accade d'altronde in letteratura. Prima, infatti, ci si deve fare le ossa assorbendo il più possibile ciò che ci circonda, poi eventualmente si può azzardare una propria invenzione.

Talvolta, però, l'interpretazione è un'arte a se stante, per la quale ci vuole un dono particolare, una sorta di unzione divina, specie quando i brani originali sono pezzi della storia del rock. Nel jazz è la norma, con le canzoni che mano a mano diventano standards sui quali creare, improvvisare, tracce base che però costituiscono solo il porto da cui salpare verso nuovi viaggi con destinazioni sconosciute. Nel rock non funziona così. Non sono molti quelli investiti di questo dono: la maggior parte dei tentativi finisce per scadere nello scolastico o nel già sentito, quando non nell'inutile. Qual è dunque la ricetta per una cover memorabile? Difficile a dirsi, quasi impossibile anzi. Tuttavia l'ingrediente che non può mancare, e qui si torna alla domanda iniziale, è voler bene alle canzoni interpretate, sentirle come parte di sé, come uno strato di pelle propria. Certo, questo non basta di per sé, ma sicuramente è una componente necessaria.

Prendiamo per esempio Rod Stewart. Una carriera arzigogolata, con troppe cadute di stile e di livello artistico, ma, almeno per quanto riguarda il suo primo periodo di carriera, quello su etichetta Mercury, coi cinque dischi dal 1969 al 1974, un interprete straordinario, di sensibilità marcatissima e capace di rendere appieno le sfumature delle canzoni più ancora degli originali. Fra i tanti brani incisi, ritroviamo cover degli Stones, di Elton John, di Sam Cooke, di Jimi Hendrix e di Bobby Womack, e di altri ancora. Tuttavia, l'autore preferito da cui saccheggiare è indubbiamente Bob Dylan, con ben quattro canzoni in cinque dischi (Tomorrow is a long time, Only a hobo, Mama you been on my mind e Girl from the north country, cui va aggiunta Man of constant sorrow che di Dylan non è ma quasi...). E i risultati sono meravigliosi, pieni di sentimento e di passione, suonati con un amorevole piglio straccione e folkeggiante ma ricchi di un pathos che le versioni originali facevano solamente presagire in lontananza. Tanto più che l'interpretazione dylaniana è ricca di tranelli e spesso foriera di risultati ingloriosi e quasi mai memorabili.

Le raccolte di cover dylaniane si sprecano, coinvolgendo artisti fra i più disparati ed improbabili (la versione, o meglio, lo scempio di Like a rolling stone ad opera degli Articolo 31 sulla colonna sonora di Masked and anonymous, col placet dello stesso Dylan, grida ancora vendetta). I risultati sono quasi sempre destinati ad un rapido oblio, coi dovuti distinguo e le dovute differenziazioni. Fra le tante versioni e i tanti “coraggiosi” (e dimenticando volutamente per ragioni storiche i Byrds, troppo importanti per ricadere banalmente sotto l'etichetta di “coveristi”), spicca un nome non troppo noto: quello di Jimmy LaFave. LaFave, onesto songwriter e nulla più, quando si ritrova sotto mano un brano di Dylan si trasforma drasticamente, vestendo i toni di un cantante straordinario (il cui timbro, e forse non è un caso, ricorda vagamente quello di Rod Stewart). Capace di infilare ben venti cover dylaniane in soli otto album (di cui un live), non c'è una sola delle sue versioni che non riesca appieno nel suo obiettivo di trasmettere un amore incondizionato verso un autore e le sue canzoni. Da ricordare, una Positively 4th street che poco ha da invidiare all'originale ed una preferenza per l'album Blood on the tracks, saccheggiato quasi in toto.

Un altro grandissimo che a Blood on the tracks doveva essere piuttosto affezionato era Jeff Buckley. Nella Legacy Edition del Live at sin-é (da avere assolutamente) c'è una If you see her say hello da mozzare il fiato, che tracima uno struggimento ed una disperazione nemmeno lontanamente percettibili nella pur immensa versione dylaniana. Ma in tutto il doppio disco si possono rintracciabili interpretazioni di svariati giganti, da Ray Charles (Drown in my own tears) a Van Morrison (Sweet thing e The way young lovers do), da Dylan (oltre a quella già citata, da aggiungersi Just like a woman e I shall be released) a Leonard Cohen (Hallelujah, in una versione molto simile a quella che sarà poi pubblicata su Grace), da Billie Holiday (Strange fruit) a Nina Simone (Be your husband). Da questi solchi non è possibile non riconoscere una maestria artistica ed un talento fuori dal comune, con quella voce inconfondibile che il mondo avrebbe imparato a conoscere con Grace ed una semplice chitarra a sostenere il tutto, segno di una maturità già raggiunta a dispetto della giovanissima età di Jeff.

A condividere le radici con il giovane Buckley ci doveva pure essere un ragazzetto di Glasgow, che si sarebbe fatto presto strada come uno dei più visionari songwriters degli ultimi venticinque anni. Il suo nome è Mike Scott, l'uomo che con i Waterboys avrebbe toccato le più alte del folk-rock con quel capolavoro che risponde al nome di Fisherman's blues. Fisherman's blues non è solo un disco ma una specie di epopea, all'interno della quale la cover diventa non solo un diversivo ma una parte integrante del flusso di coscienza di uno Scott al massimo della visionarietà. Ascoltare Sweet thing, con in coda la citazione della beatlesiana Blackbird, per rendersi conto di come la band scozzese ed il loro leader questa canzone ce l'avesse dentro al sangue, innestata a fondo nell'anima. Le registrazioni emerse negli anni successivi, prima il live semi-ufficiale The live adventures of Waterboys, poi la Deluxe edition in due cd di qualche anno fa, hanno dato maggior luce al quadro di una band sempre pronta a lanciarsi nell'altrui interpretazione con la passione bruciante di chi sta cantando la sua vita intera, spesso agganciandola a proprie composizioni. Così, The pan within si fonde con Because the night e The thrill is gone con ...and the healing has begun, come in uno stream of consciousness senza inizio né fine, mentre a parte luccica una strepitosa Purple rain, pescata da Prince, che diventa una cavalcata epicizzata ancor di più dal fiddle di Steve Wickham e dalla voce magica di Scott. Non può mancare Dylan, al quale vengono prese in prestito Nobody 'cept you, Girl from the north country e Death is not the end, a certificare un amore mai nascosto per il poeta di Duluth.

Proprio con Death is not the end si concludeva il lavoro forse più noto di un artista lontanissimo dalla sensibilità dei Waterboys: Nick Cave. L'album, datato 1996 era Murder Ballads, certamente non il capolavoro di Cave ma il disco che gli conferì una popolarità fino ad allora mai raggiunta. Death is not the end chiudeva un disco noir, di storie di omicidi e perdizione ma con un finale che sembrava squarciare le nuvole con un improvviso sprazzo di speranza, un diamante che nella versione dylaniana originale non presagiva nemmeno lontanamente il fulgore datogli da Cave. Tuttavia, l'australiano non era nuovo a recuperi di brani altrui più o meno sconosciuti: dieci anni prima, lui e i suoi Bad Seeds avevano dato alle stampe Kickin' against the pricks, un disco intero di riletture di standard blues, folk, gospel, rock and roll, pop broadwayano e psichedelia. Insomma, una specie di summa della storia della musica americana, da Johnny Cash ai Velvet Underground, da John Lee Hooker a Jimmy Webb passando per Roy Orbison e Leadbelly. Il risultato fu un affresco indimenticabile, nel quale l'australiano si impadroniva di un repertorio complesso ed articolato, passando dall'allucinazione di Long black veil alla diabolica I'm gonna kill that woman al doo-wop tinto di gospel (o viceversa....) di Jesus met the woman at the well.

Un artista costantemente paragonato a Nick Cave per il suo percorso e per la sua cifra stilistica è senza dubbio Mark Lanegan. E come Cave, anche Lanegan ha saputo lanciarsi in una riscoperta di tracce nascoste d'America con il suo magistrale I'll take care of you, album nel quale, fra le riletture di O.V. Wright, Eddie Floyd e Buck Owens spunta una scurissima Carry home di Jeffrey Lee Pierce, deus ex machina dei Gun Club, e soprattutto una Shiloh town pescata dal repertorio di Tim Hardin che sembra investire Lanegan come diretto erede del grande songwriter americano. Ed alle cover, Lanegan non ha rinunciato nemmeno in tempi recentissimi nell'ambito della colllaborazione con Isobel Campbell, ex Belle and Sebastian. Questa volta, l'ispiratore massimo è Townes Van Zandt, presente con ben due brani, Snake song e No place to fall, in Hawk!, il disco della coppia uscito da pochissime settimane.

Tuttavia, a chiudere questo breve percorso sull'arte dell'altrui interpretazione, non si può non ricordare l'immensa eredità di Johnny Cash e dei suoi American Recordings. Si potrebbe definirla una storia della canzone in dieci volumi (considerando anche i quattro dischi provenienti da Unearthed), un lungo viaggio di un uomo con la consapevolezza di essere ormai prossimo alla morte e l'urgenza di cantare la vita in ogni sua sfaccettatura, dalla gioia al dolore, dalla rabbia alla desolazione, dalla fede al buio più oscuro. Non importa che le canzoni provenissero da penne lontanissime fra loro. All'uomo in nero non interessava cercare i punti in comune fra Neil Diamond, Bono, Glen Danzig, Chris Cornell, i Depeche Mode, Neil Young, Tom Waits o Leonard Cohen (fra i tanti). All'uomo in nero interessava scavare nelle canzoni fino a trovarci la vita. E forse non è un caso che la canzone che più rappresenta la parabola umana del vecchio uomo in nero è Hurt, scritta da Trent Reznor, leader dei Nine Inch Nails, quanto di più lontano si potesse immaginare rispetto a Cash. Insomma, un grande atto d'amore verso una canzone. Che sarà un'entità quasi insignificante, ma spesso può rappresentare una vita intera.

PERCHE' UN BLOG

Lo strumento "bloggaro" (o "bloggistico"...forse suona meglio) è uno degli strumenti più inflazionati del pianeta, ok, ok, lo so! E poi, nessuno sente il bisogno di doversi sorbire le ennesime elucubrazioni sugli argomenti più vari, oltretutto portate avanti da chissà chi. Eppure, ho avuto la fortuna di incontrare delle persone che mi hanno sempre incitato a non fermarmi alla superficie dei fatti ma ad andarci dentro fino in fondo, a "giudicare" la realtà, non in un senso moralistico ma nel senso di prendere una posizione di fronte ad essa. Per cui, visto che la scrittura è sempre stata per me una modalità preferenziale, eccomi qua, a parlare di tutto, musica, cultura, sport, politica, attualità e chi più ne ha più ne metta.
Il titolo di questo blog è stato preso da un versetto della Bibbia, per la precisione del Profeta Isaia, ed è stato poi utilizzato dal mio amico (in senso di vicinanza di spirito) Francesco Guccini per una delle sue canzoni più belle. Il suo significato è emblematico: "Vedetta, quanto resta della notte?". La vedetta è il simbolo delle avanguardie dell'umanità, quelle che per grandezza di cuore e amore al vero tracciano la strada del mondo. E io le luci dell'alba le voglio vedere per primo.

WIKILEAKS, IL GUSTO DELL'OVVIO ED IL "DIRITTO ALL'INFORMAZIONE"

Oggi è il gran giorno, quello che dovrebbe cambiare le sorti della diplomazia internazionale e scuotere (forse) alcuni importanti equilibri nel panorama mondiale. Il sito internet che potremmo definire di “hacking politico” Wikileaks ha infatti appena pubblicato una immensa mole di documenti rubricati come riservatissimi, che riguardano pareri, ordini interni, opinioni a ruota libera e chi più ne ha più ne metta, il tutto relativo ad alti funzionari del governo americano operanti nel settore della politica estera. Non è la prima volta che il sito pubblica dossier così delicati e scottanti: già nell'ottobre di quest'anno, come i molti sapranno, era già stato diffuso un corpus documentale con riferimento alla guerra in Iraq (i cosiddetti war logs) che non avevano fatto altro che confermare tutta una serie di sospetti già avanzati all'inizio della seconda operazione militare nel Golfo. Ma questa volta, il gruppo di hacker – che ha fra i suoi leader l'australiano Julian Assange, uno dei pochi fra i fondatori ad avere rivelato la propria identità e, guarda caso, verso il quale pende un mandato di cattura per stupro spiccato in Svezia – punta più in alto, mirando a destabilizzare l'intero sistema di intelligence e di rapporti con la comunità internazionale attraverso la rivelazione di documenti che rischiano di mandare in subbuglio alcuni delicatissimi equilibri politici, sempre in bilico fra una politica di negoziazione e di competizione-conflitto. Fonti giornalistiche beninformate parlano già di una serie di scuse preventive che il governo di Washington avrebbe già preparato nei confronti dei propri partner politici e di assoluto gelo da parte di quegli stati, come Russia, Turchia e alcuni paesi del Medio-oriente, con i quali la partnership non è da ritenersi ancora pienamente consolidata e stabile. Insomma, un polverone mediatico senza precedenti, alimentato da quella specie di mostro tentacolare rappresentato dalla rete web e dalla relativa potenziale diffusione su scala globale di questi dati.



Ma siamo sicuri della profonda rilevanza di queste notizie? Siamo proprio sicuri che esse siano state diffuse per una sorta di amore alla verità e di volontà di rendere l'universo mondo cosciente dei rapporti di forza e dei segreti che regolano la vita politica internazionale e, più in largo, del ruolo dell'intelligence nella società globalizzata? E poi, anche ammettendo questa volontà “epifanica”, siamo sicuri che l'amore alla verità si realizzi dando in pasto all'opinione pubblica una mole incalcolabile di documenti, stimabile intorno alle diverse centinaia di migliaia? Al di là delle dichiarazioni allarmistiche (non ultima, quella del Ministro degli Esteri italiano Frattini, che ha parlato di un “complotto ordito ai danni del nostro paese”) e prescindendo dall'analisi dettagliata del contenuto di queste carte, che sono disponibili sulla rete e pertanto facilmente consultabili da chiunque ne abbia interesse, occorre provare a rispondere a queste domande per capire la vera portata di un evento che qualcuno ha già incautamente paragonato alle esplosioni atomiche di Hiroshima.
Intanto va puntualizzato come spesso le notizie in questione non sono altro che la conferma sulla carta di quelli che in giurisprudenza si usa chiamare “fatti notori”: banalizzando (per mancanza di spazio e non per intenzionata volontà), le considerazioni inerenti il Presidente del Consiglio Berlusconi – definito come un leader narcisista e “libertino”, nonché criticato per la sua vicinanza ad un personaggio controverso come Vladimir Putin – oppure quelle relative alle perplessità inerenti all'atteggiamento bifronte della Turchia, sospesa fra l'europeismo e le strizzate d'occhio al vicino iraniano, per fare soltanto due esempi, non sembrano avere quella portata “atomica” di cui si è parlato nei giorni addietro. Vero è che gran parte dei documenti finora emersi, cioè i circa 15.000 diffusi da alcune importanti testate mondiali, dei quali nessuno è rubricato come “top secret”, ma solo come “confidential” o “secret”1, sono forse solamente la punta dell'iceberg di una struttura che potrebbe essere molto più esplosiva di quanto queste prime notizie fanno pensare, però se il tenore dell'intero corpus documentale dovesse mantenersi su questi livelli, saremmo probabilmente di fronte ad un polverone fin troppo spesso per l'effettivo contenuto di tali comunicazioni.

Quello che lascia perplessi, è l'atteggiamento ideologico dei gestori del sito internet. Il sito, infatti, si pone come il paladino di una libertà di informazione totale, volta a squarciare il “velo di Maya” sui principali fatti di rilevanza mondiale. E questo proposito è certo pienamente condivisibile. Siamo sicuri, però, che la verità della storia sia racchiusa soltanto in una massa di dati, più o meno sensibili o riservati? Il fatto è che questo genere di fonti rappresenta solo una parte di quel quadro complessivo e polimorfo del quale consiste la politica internazionale. Quello che non emerge dai documenti prodotti da Wikileaks è l'eventuale rapporto fra l'intenzione (della quale le fonti rivelate sono la manifestazione immediata) e l'azione, ossia la vera e propria attività politica e diplomatica. Non si tratta di “mistificare” la storia, e nemmeno di sminuire la portata delle rivelazioni pubblicate: il punto nodale è la comprensione dell'utilità di una conoscenza integrale di ogni aspetto della politica, anche di quelle comunicazioni che per delicatezza e pericolosità dovrebbero rimanere circoscritte ad una cerchia ristretta di soggetti. Il sospetto è che le manovre del sito internet siano volte principalmente a scardinare un intero sistema amministrativo, quello americano, attaccandolo dall'interno, senza però cogliere la portata disastrosa delle conseguenze che questo attacco potrebbe scatenare. Non è un caso che il Segretario di Stato statunitense Hillary Rodham Clinton abbia sottolineato come la diffusione di molti di questi documenti possa mettere in pericolo molte vite umane e pregiudicare importanti operazioni di controterrorismo e di intelligence. Proprio questa mancanza di un giudizio critico (o almeno, di un tentativo di giudizio) è quello che più preoccupa nell'atteggiamento di Wikileaks (e, in parte, di quella larga parte di opinione pubblica che ne esalta indiscriminatamente l'operato), che pare più concentrato sulla ricerca dello scoop che del bene comune e della verità reale della storia, quasi come se il giudizio storico si basasse soltanto sul dato empirico della verificabilità delle fonti.



Un'altra considerazione, poi, segue a ruota il filo qui tracciato. Uno dei fattori che preoccupa di più, infatti, è quello che concerne la sempre più inesorabile perdita di effettività e potere dell'azione di intelligence internazionale. Il Servizio Segreto è, di per sé, uno strumento delicatissimo e controverso che però risulta assolutamente indispensabile alle relazioni internazionali, alla lotta al terrorismo ed alla risoluzione di tensioni internazionali. Purtroppo, però, negli ultimi anni si è riscontrata una tendenza alla svalutazione di questa componente politica: troppo spesso, in nome di una non meglio identificata “ricerca della verità assoluta”, si è cercato di attaccare il sistema dell'intelligence in maniera indiscriminata e spesso miope. Basti pensare al caso di Abu Omar, nel quale un'azione internazionale nei confronti di un soggetto considerato pericoloso per la collettività in quanto affiliato ad un'organizzazione terroristica è stata condannata da un magistrato (e nemmeno da un tribunale militare, al quale sarebbe legittimamente spettata la competenza) per una presunta violazione del principio di libertà soggettiva. Il problema è capire qual è la linea di confine fra una concezione ultra-democratica ed ultra-garantista ed una concezione che ponga come obiettivo centrale il mantenimento della sicurezza sociale e della convivenza pacifica degli individui. Non si intende, certo, giustificare l'utilizzo spregiudicato dello strumento dei servizi segreti per commettere azioni al limite del disumano come troppo spesso accaduto fin dal dopoguerra, ma qui si vuole provare a spostare l'attenzione verso un punto di vista più largo e, se vogliamo, più scomodo. E' il solito problema: può l'azione pur spregevole di un singolo essere commessa per scongiurare pregiudizi molto maggiori all'intiera società? In fondo, con le dovute proporzioni, è lo stesso dilemma che muoveva Creonte contro Antigone nella tragedia Sofoclea, ed è uno dei punti più dibattuti dalla filosofia dalla sua nascita ad oggi.

Il problema, però, anche nella vicenda odierna, rimane quello di non fermarsi allo scandalo di fronte alle rivelazioni di Wikileaks ma di cogliere questa occasione per provare una riflessione sul vero significato di “informazione” e di “verità”: questi due concetti sono riducibili al mero assorbimento di dati o hanno una portata più ampia, tenendo conto del dato esperienziale e di quelle apparentemente impercettibili dinamiche di rapporti umani che regolano la storia e di cui, spesso, ci si rende conto solo a mente fredda? E poi, ancora, è giustificabile un rischio così grande, in termini di vite umane e di tensioni internazionali, per il solo e puro “diritto all'informazione”? Certo, la questione è talmente spinosa che dare una risposta netta ed inequivocabile è praticamente impossibile – e d'altronde, quasi sempre il mondo non si divide in bianco e nero ma in infinite tonalità di grigio più o meno accentuato – e forse neppure interessante. L'importante, però, è non cadere nella tentazione, sempre incipiente ed insinuante, di prendere questi dati come una vera e propria Bibbia ma continuare a giudicare tenendo conto di tutti quei sottili fattori che regolano i rapporti di forza nella politica internazionale.


1Così come riportato da El Pais, una delle testate alle quali sono stati consegnati in anteprima i documenti