martedì 7 dicembre 2010

BLUE VALENTINES...




Tom Waits e Rickie Lee Jones, al tempo in cui c'erano i vinili. Era un giorno vago del 1978 o giù di lì. Il posto? Chissà...una bettola della California in fondo vale l'altra. Lui, Tom, era un duro, uno di quelli veri, mica ostentava chissà quale machismo, come fanno i divi d'oggi. Lei, bella e dannata, si poteva permettere il fottutissimo lusso di farsi ritrarre con un sigaro in bocca sulla copertina del suo primo album. Altri tempi. Sicuramente non paragonabili ad oggi. Tom era alla prova del nove. Aveva fatto uscire già cinque dischi, di cui uno strampalato live in cui snocciolava le sue "previsioni del tempo emotivo", decantava le gesta di strani autostoppisti metafisici e celebrava l'autosufficienza rifuggendo quelle che qualcuno, pivellino, chiamava "gioie matrimoniali". Aveva perfino cambiato voce, come non si sa. Ora sembrava un vecchio negro uscito da un fumoso locale jazz con una bottiglia sotto il braccio e la testa nella luna. Raccontava storie che sembravano rubate qua e là dai quaderni di appunti di Jack Kerouac ma ammantandole di un romanticismo sognatore e di un'ironia ai limiti del paradosso. Aveva incontrato Rickie Lee, che era diventata quasi subito la sua donna, ed entrambi giravano insieme ad uno strano personaggio che suonava la batteria con Howlin' Wolf e Willie Dixon ed amava alla follia Louis Jordan, il tabacco ed il Southern Confort. Ma questa è un'altra storia.
Insomma, Tom era alla prova del nove. Non era ancora quell'istrione patafisico avvezzo a giocare con pesci spada-tromboni, cani della pioggia, macchine di ossa e variazioni di muli. Tom aveva i blues come non mai, lo si vedeva in quella foto di copertina, lo si sentiva nel suo tocco di piano. Ma era anche l'uomo capace di sbattere la propria donna sopra il cofano di una vecchia cadillac. Le sue erano lettere di San Valentino, certo, ma erano lettere tristi, erano cartoline spedite da un pappone di Minneapolis, erano dollari volanti e racconti di strade sbagliate, direzione qualche parte, verso la Kentucky Avenue. Erano storie articolate, profonde, a volte grottesche, a volte surreali, a volte perfino brutali, di dolci proiettili e di ragazze senza nulla sotto i jeans. Poi, quando meno te lo aspetti, ecco giungere come una coltellata alla schiena ballate nostalgiche come non se ne erano mai sentite prima, fra temi da West side story e storie di spogliarelliste sì, ma con un cuore vero nel petto, pur mascherato da una gran fornitura di tette. Insomma, ne venne fuori un vero e proprio romanzo, tipicamente americano, capace di mozzare il fiato e, nonostante tutto, nonostante l'umanità spesso devastata che popolava le sue storie, profondamente intriso da uno spirito sognatore, come poche altre volte è capitato di sentire.
Le cose sarebbero cambiate in fretta. Rickie Lee se ne sarebbe andata presto, il batterista avrebbe continuato la sua caotica esistenza, un'altra donna, Kathleen, avrebbe attraversato la strada di quello strano uomo californiano. Certo, i capolavori sarebbero arrivati anche dopo (qualcuno potrebbe anche dire “soprattutto” dopo). Quello che però non sarebbe mai ritornato è lo spirito notturno, malinconico e fumoso di queste lettere chissà da dove spedite e dirette a chissà chi.

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