giovedì 6 marzo 2014

AFFINITÀ E DIVERGENZE FRA LA GRANDE BELLEZZA E LA CORAZZATA KOTIOMKIN: un Je(p) accuse in piena regola




Siamo sicuri che se Guidobaldo Maria Riccardelli fosse nato qualche anno dopo, sarebbe andato in solluchero per un film come “La Grande Bellezza”. Il “montaggio analogico!” sarebbe stato sostituito di certo dal “piano sequenza!”, “l’occhio della madre!” da “le rughe della Santa!”, “la carrozzina!” da “la statua di Garibaldi con la scritta!”. Un appassionato ed esperto di cinema come lui si sarebbe sciolto come un ghiacciolo nel deserto del Sahara a mezzogiorno per le incredibili riprese di Paolo Sorrentino, per i meravigliosi colori della pellicola, per gli stacchi di montaggio, condotti con una perizia incredibile, per le riprese esterne, soprattutto notturne. Come potrebbe essere altrimenti? Anche i peggiori detrattori non possono fare a meno di riconoscere al regista napoletano delle doti assolutamente fuori dal comune (e no, non stiamo parlando del Comune di Roma).
Allo stesso modo, la prova d’attore di Toni Servillo è fuori da ogni discussione (sebbene inferiore – almeno a parer nostro – alla memorabile interpretazione da lui offerta nel molto meno memorabile “La ragazza del lago”): è lui che tiene in piedi l’intero film, con la sua ghigna accidiosa e imperscrutabile, la sigaretta perennemente agganciata fra i denti e l’incedere indolente e insofferente allo stesso tempo.
Queste premesse però non sono sufficienti: se qualcuno, là alla premiazione degli Academy Awards, fosse saltato sul tavolo dei giurati con tanto di stivali da cowboy (ci permettiamo di emulare il citazionismo di Sorrentino ma – essendo decisamente meno acculturati di lui – invece di Céline e Flaubert ci accontentiamo di citare Steve Earle) e fosse deflagrato al grido liberatorio e apotropaico di “La Grande Bellezza... (pausa di suspence) …È UNA CAGATA PAZZESCA!”, probabilmente dai novantadue secondi di Los Angeles si sarebbe passati ai canonici novantadue minuti di applausi.
Perché?
Non è una questione di frammentarietà della trama: sulla frammentazione del soggetto, sulla tecnica del flash-back (emblematico è lo stacco improvviso dalla conversazione a cena fra Servillo e Sabrina Ferilli ci si sposta in una camera illuminata con un ragazzo in mutande che palleggia ossessivamente accompagnato dalla sigla iniziale di Novantesimo Minuto), sui silenzi improvvisi che accompagnano certe scene e sulle musiche ossessive che ne accompagnano certe altre c’è poco da dire. Sorrentino altro non fa che recuperare mezzi espressivi già usati mille volte prima di lui.
Il problema sostanziale è un altro: il vuoto narrativo, totale e desolante, che promana dallo sfogo estetico e tecnicista di Sorrentino. Innanzitutto, la storia è una “non storia”, dalla trama sottilissima e quasi impercettibile, esile filo che lega insieme la dicotomia fra la bellezza degli ambienti scenici e la bruttezza grottesca e spesso caricaturale delle figure dei personaggi che appaiono nel corso del film spesso tenuta insieme da una miriade di citazioni letterarie (Flaubert, Céline, Dostoevskij fra gli altri). Ma questo non sarebbe di per sé un problema, se al centro del tutto non ci fosse la weltanschauung da supermercato del protagonista, l’”eterno io” Jep Gambardella (pare del tutto voluta l’assonanza “Jep”/”Je”), che si muove fra battute da supermercato, crisi di desolazione, suggestioni colte e grettezze varie. Un campionario, insomma, da rito itifallico per intellettuali (sì, abbiamo usato la parola “itifallico” ma, d’altronde, se vi è piaciuto il film siete quel genere di persone che ne comprendono il significato…).
In questo panorama da bildungsroman spicciolo di un’anima incartapecorita, le figure dei personaggi di contorno sono monodimensionali, prive di consistenza, simboliche all’eccesso. Troppo facile giocare con le assonanze: Roma – la grande madre di tutto il film – Romano – il figlio tipico di una madre in decadenza – Ramona – la figlia morente e moribonda. Troppo facile giocare con i luoghi comuni, i Conti decaduti, le contraddizioni della Chiesa Cattolica, dicotomizzata fra la carnalità surreale e quasi comica del Cardinale Bellucci e l’ascetismo mistico della Santa, che non a caso si nutre solo delle proprie “radici”, la caricatura della femminista archetipica, del marito abituale cliente di meretrici, della giornalista senza scrupoli e con  un debole per i toy boy. Potremmo andare avanti per un’ora ma i lettori probabilmente si stuferebbero prima, si ammutinerebbero e ci costringerebbero a guardare per due giorni e due notti consecutive a rotazione “Giovannona Coscialunga”, “L’esorciccio” e “La Polizia si incazza”. E dubitiamo che il terzo giorno la polizia si possa incazzare veramente, almeno questa volta, visto che non ci chiamiamo – aridaje! – Guidobaldo Maria Riccardelli e non siamo dirigenti della Mega-Ditta.
Ma al di là del contorno, quello che non convince è soprattutto la gigantografia del PERSONAGGIO simbolo del film.
Facciamo un passo per volta.
“Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l'immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient'altro che una storia fittizia. Lo dice Littré, lui non sbaglia mai. E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi. È dall'altra parte della vita.” (Louis Ferdinand Céline)
Questa frase è il compendio perfetto di tutto il film. Il viaggio che si racconta è un viaggio immaginario, un viaggio mentale dell’io attraverso la decadenza umana, propria e della società circostante. Il protagonista si sente dotato di una sensibilità fuori dal comune e, fin dall’inizio, se ne vanta.
“A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: "La fessa". Io, invece, rispondevo: "L'odore delle case dei vecchi". La domanda era: "Che cosa ti piace di più veramente nella vita?".Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore. Ero destinato a diventare Jep Gambardella.”
La reazione è: “e quindi?”. L’autoreferenzialità del personaggio – o meglio, dell’antipersonaggio – principale è assolutamente totale e irritante. Suona falsa, inventata, una proiezione del proprio super-io su tutti i fatti circostanti. Una proiezione di sé assolutamente ingiustificata e senza fondamenti concreti. Tutto concorre all’affermazione del contrario.
Le battute teatrali di Jep Gambardella, colui che ricerca “La Grande Bellezza” sono un’accozzaglia di banalità, luoghi comuni, frasi apparentemente piene di respiro poetico e umano ma che alla fine si declinano nel nulla. La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto 65 anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare", dice Jep/Je. Parrebbe una frase di profondità umana grandiosa, che tocca le corde emozionali dell’Uomo. Eppure, a leggerla tra le righe, non è che un’affermazione cinica ed auto-commiseratoria: il protagonista la usa soltanto per giustificare la propria fuga dopo l’ennesimo atto sessuale vissuto come una “masturbazione con corpo altrui”. Niente più di questo, niente più (anche questa è una citazione romana fin nel midollo. Ai lettori il compito di scoprirne la dottissima fonte).
Prendiamo poi le lacrime al funerale: sono un attimo solo di debolezza, poi la morte tornerà ad essere esorcizzata come prima, nient’altro che un trucco. Finzione suprema, scenica ed emotivamente forte. Ma vuota, vacua, olezzante di autocompiacimento. D’altronde, la scritta sul basamento della statua all’inizio del film, “Roma o morte”, dice molto. Può essere letta in due sensi: “Roma È morte”, come atto d’accusa, o “Roma O morte”, come esorcismo, quello stesso esorcismo di cui Jep/Je è tanto curioso, cercando di soddisfare la propria curiosità con il Cardinale Bellucci.
Nel crogiuolo dei luoghi comuni, non poteva mancare neppure la stoccata politica, impersonata dal misterioso vicino di casa di Jep/Je, imperscrutabile per tutte le millemmillemmille ore della durata del film (non stupitevi di questa affermazione. Einstein, sul punto si sarebbe certamente espresso così: Quando un uomo siede per tre giorni in compagnia di una bella ragazza, sembra siano passati centoquarantadue minuti. Ma fatelo sedere davanti a La Grande Bellezza per centoquarantadue minuti e gli sembreranno più lunghi di qualsiasi tre giorni consecutivi. Questa è la relatività.”), salvo poi epifanicamente ed itifallicamente (se vi è piaciuto il film ecc. ecc.)  manifestarsi come un ricercato internazionale, che accusa Jep di lassismo mentre lui, sì, lui è uno che fa girare il mondo! Trionfo. Altro che novantadue minuti d’applausi. Ce ne vorrebbero almeno centottantaquattro. Di badilate nei denti, però, tanto la trovata scenica pare posticcia e quasi prevedibile.
Il cinismo mascherato di desiderio di infinito però trova l’apoteosi nel finale, con l’apparentemente cambiato protagonista che va “a ritroso”, come Des Esseintes, il protagonista del romanzo di Huysmans, che si ritira dalla vita mondana di Parigi rifugiandosi lontano dal chiacchiericcio della solita vita, a dare l’ennesimo sfogo al proprio ego: non più le feste ma la celebrazione del proprio ego, il ricercare le radici come esorcismo della morte, per scrivere finalmente quel “romanzo sul nulla” che avrebbe sempre voluto scrivere. Amen.
Tutto ciò che colpisce nel film è pura forma, puri input emozionali, pura estetica, senza alcuna sostanza. La sostanza è il nulla, è la celebrazione di una bellezza statica che non partecipa della vita del mondo, come gli dei greci dal loro splendore contemplavano i poveri “omini terragni, tutti ugualmente brutti” (questa citazione, invece, appartiene al più grande regista di commedie italiano, quel Mario Monicelli cui la Giustizia Divina in Paradiso non concederà settantasette vergini ma settantasette Oscar) senza compassione né simpatia (“syn” + “pathein”, sentire insieme, commuoversi), la celebrazione della tecnica artistica. È l’esorcismo della Morte attraverso la celebrazione dell’io. Un io – Je – non profondo nel starle di fronte ma effimero, superficiale, lontano da sé.
Tutto ciò, però, porta ad una considerazione di carattere più generale.
Il problema sostanziale dell’arte è che non può essere mai pura estetica, deve contenere in sé un rimando a qualcosa d’altro, e in questo La Grande Bellezza, richiama più le celebrazioni dell’estetica del nulla di Bernardo Bertolucci che la poetica del sogno di Federico Fellini. L'arte deve sempre essere un sottile equilibrio fra significante e significato e quando l'opera si sbilancia troppo nell'uno o nell'altro senso non si può più parlare di arte.  In "La Grande Bellezza" tutto è solo significante. Più che “La Grande Bellezza” è “La Grande Guittezza” (questa citazione, che “sa di ratafià” è forse un po’ troppo piemontese ed un po’ troppo poco romana): si può restare emotivamente ammirati per la magnificenza delle scene, per i dotti rimandi citazionisti (se si è intellettuali il godimento probabilmente sarà amplificato), per le ondate emotive di alcune singole scene o di alcune frasi ma, gratta gratta, rimane soltanto un onanistico “bla bla bla” senza nulla sotto, eppure confezionato in una scatola meravigliosa.
In conclusione, ci viene da dire che forse Sorrentino ha sbagliato a scegliere la citazione di Céline per l’incipit del film.
Forse questa sarebbe stata più appropriata: “Il viaggio è la ricerca di questo niente assoluto, di questa piccola vertigine per coglioni”.
Ovviamente, i coglioni siamo noi.

La redazione di Shomer-ma-mi-llailah:
Gabriele D. Gatto
Jerry Lee Cat
Le Vieux Chat

P.s.: In sintesi: le affinità di cui al titolo stanno nella categoria di appartenenza dei due film, entrambi sotto la voce “Cagata pazzesca”. Le divergenze stanno nel fatto che “La Corazzata Kotiomkin” non viene trasmessa in prima serata su Canale Cinque.

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