Siamo sicuri che
se Guidobaldo Maria Riccardelli fosse nato qualche anno dopo, sarebbe andato in
solluchero per un film come “La Grande
Bellezza ”. Il “montaggio analogico!” sarebbe stato sostituito
di certo dal “piano sequenza!”, “l’occhio della madre!” da “le rughe della
Santa!”, “la carrozzina!” da “la statua di Garibaldi con la scritta!”. Un
appassionato ed esperto di cinema come lui si sarebbe sciolto come un
ghiacciolo nel deserto del Sahara a mezzogiorno per le incredibili riprese di
Paolo Sorrentino, per i meravigliosi colori della pellicola, per gli stacchi di
montaggio, condotti con una perizia incredibile, per le riprese esterne,
soprattutto notturne. Come potrebbe essere altrimenti? Anche i peggiori
detrattori non possono fare a meno di riconoscere al regista napoletano delle
doti assolutamente fuori dal comune (e no, non stiamo parlando del Comune di
Roma).
Allo stesso modo,
la prova d’attore di Toni Servillo è fuori da ogni discussione (sebbene
inferiore – almeno a parer nostro – alla memorabile interpretazione da lui
offerta nel molto meno memorabile “La ragazza del lago”): è lui che tiene in
piedi l’intero film, con la sua ghigna accidiosa e imperscrutabile, la
sigaretta perennemente agganciata fra i denti e l’incedere indolente e
insofferente allo stesso tempo.
Queste premesse
però non sono sufficienti: se qualcuno, là alla premiazione degli Academy
Awards, fosse saltato sul tavolo dei giurati con tanto di stivali da cowboy (ci
permettiamo di emulare il citazionismo di Sorrentino ma – essendo decisamente
meno acculturati di lui – invece di Céline e Flaubert ci accontentiamo di
citare Steve Earle) e fosse deflagrato al grido liberatorio e apotropaico di “La Grande Bellezza...
(pausa di suspence) …È UNA CAGATA
PAZZESCA!”, probabilmente dai novantadue secondi di Los Angeles si sarebbe
passati ai canonici novantadue minuti di applausi.
Perché?
Non è una questione di frammentarietà della
trama: sulla frammentazione del soggetto, sulla tecnica del flash-back (emblematico è lo stacco
improvviso dalla conversazione a cena fra Servillo e Sabrina Ferilli ci si
sposta in una camera illuminata con un ragazzo in mutande che palleggia
ossessivamente accompagnato dalla sigla iniziale di Novantesimo Minuto), sui
silenzi improvvisi che accompagnano certe scene e sulle musiche ossessive che
ne accompagnano certe altre c’è poco da dire. Sorrentino altro non fa che
recuperare mezzi espressivi già usati mille volte prima di lui.
Il problema sostanziale è un altro: il
vuoto narrativo, totale e desolante, che promana dallo sfogo estetico e
tecnicista di Sorrentino. Innanzitutto, la storia è una “non storia”, dalla
trama sottilissima e quasi impercettibile, esile filo che lega insieme la
dicotomia fra la bellezza degli ambienti scenici e la bruttezza grottesca e
spesso caricaturale delle figure dei personaggi che appaiono nel corso del film
spesso tenuta insieme da una miriade di citazioni letterarie (Flaubert, Céline,
Dostoevskij fra gli altri). Ma questo non sarebbe di per sé un problema, se al centro del tutto non ci fosse la weltanschauung da supermercato del
protagonista, l’”eterno io” Jep Gambardella (pare del tutto voluta l’assonanza
“Jep”/”Je”), che si muove fra battute da supermercato, crisi di desolazione,
suggestioni colte e grettezze varie. Un campionario, insomma, da rito
itifallico per intellettuali (sì, abbiamo usato la parola “itifallico” ma,
d’altronde, se vi è piaciuto il film siete quel genere di persone che ne
comprendono il significato…).
In questo panorama da bildungsroman spicciolo di un’anima incartapecorita, le figure dei
personaggi di contorno sono monodimensionali, prive di consistenza, simboliche
all’eccesso. Troppo facile giocare con le assonanze: Roma – la grande madre di
tutto il film – Romano – il figlio tipico di una madre in decadenza – Ramona –
la figlia morente e moribonda. Troppo facile giocare con i luoghi comuni, i
Conti decaduti, le contraddizioni della Chiesa Cattolica, dicotomizzata fra la
carnalità surreale e quasi comica del Cardinale Bellucci e l’ascetismo mistico
della Santa, che non a caso si nutre solo delle proprie “radici”, la caricatura
della femminista archetipica, del marito abituale cliente di meretrici, della
giornalista senza scrupoli e con un
debole per i toy boy. Potremmo andare avanti per un’ora ma i lettori
probabilmente si stuferebbero prima, si ammutinerebbero e ci costringerebbero a
guardare per due giorni e due notti consecutive a rotazione “Giovannona
Coscialunga”, “L’esorciccio” e “La
Polizia si incazza”. E dubitiamo che il terzo giorno la
polizia si possa incazzare veramente, almeno questa volta, visto che non ci
chiamiamo – aridaje! – Guidobaldo Maria Riccardelli e non siamo dirigenti della
Mega-Ditta.
Ma al di là del contorno, quello che non
convince è soprattutto la gigantografia del PERSONAGGIO simbolo del film.
Facciamo un passo per volta.
“Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l'immaginazione. Tutto il resto
è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco
la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto
inventato. È un romanzo, nient'altro che una storia fittizia. Lo dice Littré,
lui non sbaglia mai. E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta
chiudere gli occhi. È dall'altra parte della vita.” (Louis Ferdinand Céline)
Questa frase è il
compendio perfetto di tutto il film. Il viaggio che si racconta è un viaggio
immaginario, un viaggio mentale dell’io attraverso la decadenza umana, propria
e della società circostante. Il protagonista si sente dotato di una sensibilità
fuori dal comune e, fin dall’inizio, se ne vanta.
“A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano
sempre la stessa risposta: "La fessa".
Io, invece, rispondevo: "L'odore delle case dei vecchi". La domanda
era: "Che cosa ti piace di più veramente nella vita?".Ero destinato
alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore. Ero destinato a
diventare Jep Gambardella.”
La reazione è:
“e quindi?”. L’autoreferenzialità del personaggio – o meglio,
dell’antipersonaggio – principale è assolutamente totale e irritante. Suona
falsa, inventata, una proiezione del proprio super-io su tutti i fatti
circostanti. Una proiezione di sé assolutamente ingiustificata e senza
fondamenti concreti. Tutto concorre all’affermazione del contrario.
Le battute
teatrali di Jep Gambardella, colui che ricerca “La Grande Bellezza ” sono
un’accozzaglia di banalità, luoghi comuni, frasi apparentemente piene di
respiro poetico e umano ma che alla fine si declinano nel nulla. “La più consistente scoperta che
ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto 65 anni è che non posso più perdere
tempo a fare cose che non mi va di fare", dice Jep/Je. Parrebbe una frase di profondità umana
grandiosa, che tocca le corde emozionali dell’Uomo. Eppure, a leggerla tra le
righe, non è che un’affermazione cinica ed auto-commiseratoria: il protagonista
la usa soltanto per giustificare la propria fuga dopo l’ennesimo atto sessuale
vissuto come una “masturbazione con corpo altrui”. Niente più di questo, niente
più (anche questa è una citazione romana fin nel midollo. Ai lettori il compito
di scoprirne la dottissima fonte).
Prendiamo poi le lacrime
al funerale: sono un attimo solo di debolezza, poi la morte tornerà ad essere
esorcizzata come prima, nient’altro che un trucco. Finzione suprema, scenica ed
emotivamente forte. Ma vuota, vacua, olezzante di autocompiacimento.
D’altronde, la scritta sul basamento della statua all’inizio del film, “Roma o
morte”, dice molto. Può essere letta in due sensi: “Roma È morte”, come atto
d’accusa, o “Roma O morte”, come esorcismo, quello stesso esorcismo di cui
Jep/Je è tanto curioso, cercando di soddisfare la propria curiosità con il
Cardinale Bellucci.
Nel crogiuolo dei luoghi
comuni, non poteva mancare neppure la stoccata politica, impersonata dal
misterioso vicino di casa di Jep/Je, imperscrutabile per tutte le
millemmillemmille ore della durata del film (non stupitevi di questa
affermazione. Einstein, sul punto si sarebbe certamente espresso così: “Quando un uomo siede per tre giorni in compagnia di
una bella ragazza, sembra siano passati centoquarantadue minuti. Ma fatelo
sedere davanti a La Grande Bellezza per centoquarantadue minuti e gli
sembreranno più lunghi di qualsiasi tre giorni consecutivi. Questa è la
relatività.”), salvo poi epifanicamente ed
itifallicamente (se vi è piaciuto il film ecc. ecc.) manifestarsi come un ricercato
internazionale, che accusa Jep di lassismo mentre lui, sì, lui è uno che fa
girare il mondo! Trionfo. Altro che novantadue minuti d’applausi. Ce ne
vorrebbero almeno centottantaquattro. Di badilate nei denti, però, tanto la
trovata scenica pare posticcia e quasi prevedibile.
Il cinismo mascherato di desiderio di
infinito però trova l’apoteosi nel finale, con l’apparentemente cambiato
protagonista che va “a ritroso”, come Des Esseintes, il protagonista del
romanzo di Huysmans, che si ritira dalla vita mondana di Parigi rifugiandosi
lontano dal chiacchiericcio della solita vita, a dare l’ennesimo sfogo al
proprio ego: non più le feste ma la celebrazione del proprio ego, il ricercare
le radici come esorcismo della morte, per scrivere finalmente quel “romanzo sul
nulla” che avrebbe sempre voluto scrivere. Amen.
Tutto ciò che colpisce nel film è pura
forma, puri input emozionali, pura
estetica, senza alcuna sostanza. La sostanza è il nulla, è la celebrazione di
una bellezza statica che non partecipa della vita del mondo, come gli dei greci
dal loro splendore contemplavano i poveri “omini terragni, tutti ugualmente
brutti” (questa citazione, invece, appartiene al più grande regista di commedie
italiano, quel Mario Monicelli cui la Giustizia Divina in Paradiso non
concederà settantasette vergini ma settantasette Oscar) senza compassione né
simpatia (“syn” + “pathein”, sentire
insieme, commuoversi), la celebrazione della tecnica artistica. È l’esorcismo
della Morte attraverso la celebrazione dell’io. Un io – Je – non profondo nel
starle di fronte ma effimero, superficiale, lontano da sé.
Tutto ciò, però, porta ad una
considerazione di carattere più generale.
Il problema sostanziale dell’arte è che non
può essere mai pura estetica, deve contenere in sé un rimando a qualcosa
d’altro, e in questo La Grande Bellezza, richiama più le celebrazioni
dell’estetica del nulla di Bernardo Bertolucci che la poetica del sogno di
Federico Fellini. L'arte deve sempre essere un sottile equilibrio fra significante e significato e quando l'opera si sbilancia troppo nell'uno o nell'altro senso non si può più parlare di arte. In "La Grande Bellezza" tutto è solo significante. Più che “La Grande Bellezza” è “La Grande Guittezza” (questa
citazione, che “sa di ratafià” è forse un po’ troppo piemontese ed un po’
troppo poco romana): si può restare emotivamente ammirati per la magnificenza
delle scene, per i dotti rimandi citazionisti (se si è intellettuali il
godimento probabilmente sarà amplificato), per le ondate emotive di alcune
singole scene o di alcune frasi ma, gratta gratta, rimane soltanto un
onanistico “bla bla bla” senza nulla sotto, eppure confezionato in una scatola
meravigliosa.
In conclusione, ci viene da dire che forse
Sorrentino ha sbagliato a scegliere la citazione di Céline per l’incipit del
film.
Forse questa sarebbe stata più appropriata:
“Il viaggio è la ricerca di questo niente assoluto, di questa piccola
vertigine per coglioni”.
Ovviamente, i
coglioni siamo noi.
La redazione di Shomer-ma-mi-llailah:
Gabriele
D. Gatto
Jerry
Lee Cat
Le Vieux Chat
P.s.: In sintesi:
le affinità di cui al titolo stanno nella categoria di appartenenza dei due
film, entrambi sotto la voce “Cagata pazzesca”. Le divergenze stanno nel fatto
che “La Corazzata Kotiomkin” non viene trasmessa in prima serata su Canale
Cinque.
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