domenica 3 agosto 2014

THE MISCONOSCIUTO'S CULT ALBUM COLLECTION - Capitolo I



JACK HARDY - Mirror Of My Madness (1976)





Ci fu un tempo in cui il sottoscritto si aggirava per la città in cerca spasmodica di nuova musica. Cinque o sei erano le mete privilegiate, negozi di dischi ormai per lo più scomparsi, travolti via con l'arrivo del nuovo Millennio. Erano gli ultimi fuochi di un'epoca gloriosa, di quando la musica la si andava a scoprire nei negozi, con la complicità di negozianti che prima di tutto erano appassionati e poi commercianti. Bé, chiaro, qualcuno sapeva coniugare le due cose e, di solito, quando lo faceva erano guai per il portafoglio, tanto più quello magro magro di un adolescente.
In quei negozi si andava prima di tutto per ascoltare e scoprire. Internet c'era già però non bastava. Servivano gli stimoli, i suggerimenti, le dritte, i consigli di qualcuno che, almeno alla lontana, conoscesse i tuoi gusti e cercasse di allargarli. Così, c'era un tempo in cui battevo il centro di Torino, in direzione Via Cesare Battisti, meta Rock and Folk reparto vinili, in cerca di dischi di cantautori americani. Arlo Guthrie, Tom Rush, Gene Clark, Eric Andersen, Townes Van Zandt, Guy Clark erano solo alcuni dei nomi che ho scoperto lì dentro, artisti che sono entrati di schianto nella vita di un ragazzo di sedici-diciassette anni folgorato sulla via dei folksingers.
Il proprietario, però, mi diceva sempre che ce n'era uno che era superiore a tutti o quasi. Il suo nome era Jack Hardy. Peccato che i suoi dischi non si trovassero nemmeno a cercarli col lanternino. Comunque, ogni volta che veniva fuori il nome di Jack Hardy, la risposta che mi veniva spontanea era: “ecchiccazzè?” (così, tutto attaccato, suona decisamente più realistico). Finché il negoziante in questione, probabilmente stanco della mia irriverente risposta, pensò bene di regalarmi una cassetta C-60 con sopra un disco del 1976, intitolato Mirror Of My Madness.
Allora non sapevo nulla di lui, non sapevo che fosse un discendente della famiglia Studebaker (ossia i più importanti costruttori di diligenze d'America), non sapevo che avesse origini irlandesi, non sapevo che grazie a lui avevano mosso i primi passi personaggi come Suzanne Vega, Tracy Chapman o John Gorka, non sapevo del suo impegno civile e culturale al fianco di Dave Van Ronk, storico esponente del Greenwich Village newyorchese degli anni Sessanta. Non sapevo assolutamente nulla, in sostanza.
Eppure rimasi maledettamente colpito da quel disco, su quella cassetta che conservo ancora ma che è oramai quasi inascoltabile per l'usura. Certo, sono ancora convinto che la definizione “Miglior autore americano degli anni Settanta” fosse decisamente iperbolica. Forse era colpa di una voce aspra e poco educata, certamente molto dylaniana, come molto dylaniano è tutto l'impianto dell'album intero, che riporta alle scarne partiture di un disco come John Wesley Harding, certamente uno degli album più belli di Dylan ma non di certo uno di quelli a cui più artisti si sono ispirati, almeno a livello di suoni. Certo che però le storie Jack Hardy le ha sempre sapute raccontare. Saranno state le sue origini irlandesi, che musicalmente non trasparivano ancora in questo Mirror Of My Madness ma che il musicista avrebbe abbondantemente approfondito in tutta la produzione successiva, sarà stata la gavetta nelle riviste del folk newyorchese; fatto sta che l'arte del racconto è sempre stata centrale nell'opera di Hardy, come traspare nei solchi di questo disco.
Prendere, per esempio, la storia urbana di vagabondaggi ed ubriacature a tempo di ¾ di Resolution o la quasi-novella iniziale di The Tailor, il cui impianto di ballata era quasi fuori tempo massimo nel 1976. Letteralmente meravigliosi erano poi gli affreschi di Down When The Rabbits Run o del lungo flusso di coscienza di Big Wheels, un treno folk a base di chitarre acustiche e secchi incisi di armonica.
Il pezzo più bello di tutti, e – quello sì! - una delle più belle canzoni uscite dalla scena dei singer-songwriters nei Settanta, era però Night On The Town, certamente il pezzo dall'impianto più rock del lotto, aperto e tagliato a metà ancora una volta dall'armonica e caratterizzato da un testo visionario e, manco a dirlo, notturno ed urbano. Un brano eccezionale, senza alcun dubbio, perla di un disco di per sé già eccellente, un disco senza dubbio “di culto”, intendendosi con questa definizione “uno di quegli album che nessuno si è filato per quarant'anni e che, eppure...”.
Jack Hardy, dopo Mirror Of My Madness, ha messo insieme una bella serie di album, tutti di buon valore, con alcuni picchi compositivi notevoli (a tutti consiglio l'ottimo The Hunter del 1987 e le antologie Retrospective del 1984 e The Tinker's Coin, dove sono raccolte le sue composizioni più belle di stampo irlandese), fino alla scomparsa per un male incurabile nel marzo 2011.
Ho fatto in tempo a vederlo dal vivo, al FolkClub di Torino, nell'aprile del 2010 (quando oramai di anni ne avevo “ben” venticinque), accompagnato solo dalla sua chitarra e dalla sua armonica, e in quella dimensione ho capito perché il mio amico negoziante ne parlava come un gigante. Era carismatico e la forza compositiva delle sue canzoni, in quella veste così scarna, risaltava molto più che nei dischi.
Prima del concerto mi avvicinai a lui e gli chiesi di suonarmi proprio quella Night On The Town che tanto avevo amato da ragazzino. Lui si mise a ridere e mi disse grossomodo: “E tu come cazzo fai a conoscerla?”. Gli risposi, anch'io ridendo: “È una lunga storia...”. Jack mi diede una pacca sulla spalla e mi disse: “Ok ragazzo!” e, durante il concerto me la dedicò. C'è mancato veramente poco che mi mettessi a piangere. Vedete quante cose possono nascere da una C-60?


(Qui sotto potete ascoltare in streaming l'intero Mirror Of My Madness. Fatelo, ne vale veramente la pena.)





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