JACK HARDY - Mirror Of My Madness (1976)
Ci
fu un tempo in cui il sottoscritto si aggirava per la città in cerca
spasmodica di nuova musica. Cinque o sei erano le mete privilegiate,
negozi di dischi ormai per lo più scomparsi, travolti via con
l'arrivo del nuovo Millennio. Erano gli ultimi fuochi di un'epoca
gloriosa, di quando la musica la si andava a scoprire nei negozi, con
la complicità di negozianti che prima di tutto erano appassionati e
poi commercianti. Bé, chiaro, qualcuno sapeva coniugare le due cose
e, di solito, quando lo faceva erano guai per il portafoglio, tanto
più quello magro magro di un adolescente.
In
quei negozi si andava prima di tutto per ascoltare e scoprire.
Internet c'era già però non bastava. Servivano gli stimoli, i
suggerimenti, le dritte, i consigli di qualcuno che, almeno alla
lontana, conoscesse i tuoi gusti e cercasse di allargarli. Così,
c'era un tempo in cui battevo il centro di Torino, in direzione Via
Cesare Battisti, meta Rock and Folk reparto vinili, in cerca di
dischi di cantautori americani. Arlo Guthrie, Tom Rush, Gene Clark,
Eric Andersen, Townes Van Zandt, Guy Clark erano solo alcuni dei nomi
che ho scoperto lì dentro, artisti che sono entrati di schianto
nella vita di un ragazzo di sedici-diciassette anni folgorato sulla
via dei folksingers.
Il
proprietario, però, mi diceva sempre che ce n'era uno che era
superiore a tutti o quasi. Il suo nome era Jack Hardy. Peccato che i
suoi dischi non si trovassero nemmeno a cercarli col lanternino.
Comunque, ogni volta che veniva fuori il nome di Jack Hardy, la
risposta che mi veniva spontanea era: “ecchiccazzè?” (così,
tutto attaccato, suona decisamente più realistico). Finché il
negoziante in questione, probabilmente stanco della mia irriverente
risposta, pensò bene di regalarmi una cassetta C-60 con sopra un
disco del 1976, intitolato Mirror
Of My Madness.
Allora
non sapevo nulla di lui, non sapevo che fosse un discendente della
famiglia Studebaker (ossia i più importanti costruttori di diligenze
d'America), non sapevo che avesse origini irlandesi, non sapevo che
grazie a lui avevano mosso i primi passi personaggi come Suzanne
Vega, Tracy Chapman o John Gorka, non sapevo del suo impegno civile e
culturale al fianco di Dave Van Ronk, storico esponente del Greenwich
Village newyorchese degli anni Sessanta. Non sapevo assolutamente
nulla, in sostanza.
Eppure
rimasi maledettamente colpito da quel disco, su quella cassetta che
conservo ancora ma che è oramai quasi inascoltabile per l'usura.
Certo, sono ancora convinto che la definizione “Miglior autore
americano degli anni Settanta” fosse decisamente iperbolica. Forse
era colpa di una voce aspra e poco educata, certamente molto
dylaniana, come molto dylaniano è tutto l'impianto dell'album
intero, che riporta alle scarne partiture di un disco come John
Wesley Harding, certamente uno degli album più belli di Dylan ma non
di certo uno di quelli a cui più artisti si sono ispirati, almeno a
livello di suoni. Certo che però le storie Jack Hardy le ha sempre
sapute raccontare. Saranno state le sue origini irlandesi, che
musicalmente non trasparivano ancora in questo Mirror
Of My Madness ma che
il musicista avrebbe abbondantemente approfondito in tutta la
produzione successiva, sarà stata la gavetta nelle riviste del folk
newyorchese; fatto sta che l'arte del racconto è sempre stata
centrale nell'opera di Hardy, come traspare nei solchi di questo
disco.
Prendere,
per esempio, la storia urbana di vagabondaggi ed ubriacature a tempo
di ¾ di Resolution
o la quasi-novella iniziale di The
Tailor, il cui
impianto di ballata era quasi fuori tempo massimo nel 1976.
Letteralmente meravigliosi erano poi gli affreschi di Down When The
Rabbits Run o del lungo flusso di coscienza di Big
Wheels, un treno folk
a base di chitarre acustiche e secchi incisi di armonica.
Il
pezzo più bello di tutti, e – quello sì! - una delle più belle
canzoni uscite dalla scena dei singer-songwriters nei Settanta, era
però Night On The
Town, certamente il
pezzo dall'impianto più rock del lotto, aperto e tagliato a metà
ancora una volta dall'armonica e caratterizzato da un testo
visionario e, manco a dirlo, notturno ed urbano. Un brano
eccezionale, senza alcun dubbio, perla di un disco di per sé già
eccellente, un disco senza dubbio “di culto”, intendendosi con
questa definizione “uno di quegli album che nessuno si è filato
per quarant'anni e che, eppure...”.
Jack
Hardy, dopo Mirror Of
My Madness, ha messo
insieme una bella serie di album, tutti di buon valore, con alcuni
picchi compositivi notevoli (a tutti consiglio l'ottimo The
Hunter del 1987 e le
antologie Retrospective
del 1984 e The
Tinker's Coin, dove
sono raccolte le sue composizioni più belle di stampo irlandese),
fino alla scomparsa per un male incurabile nel marzo 2011.
Ho
fatto in tempo a vederlo dal vivo, al FolkClub di Torino, nell'aprile
del 2010 (quando oramai di anni ne avevo “ben” venticinque),
accompagnato solo dalla sua chitarra e dalla sua armonica, e in
quella dimensione ho capito perché il mio amico negoziante ne
parlava come un gigante. Era carismatico e la forza compositiva delle
sue canzoni, in quella veste così scarna, risaltava molto più che
nei dischi.
Prima
del concerto mi avvicinai a lui e gli chiesi di suonarmi proprio
quella Night On The
Town che tanto avevo
amato da ragazzino. Lui si mise a ridere e mi disse grossomodo: “E
tu come cazzo fai a conoscerla?”. Gli risposi, anch'io ridendo: “È
una lunga storia...”. Jack mi diede una pacca sulla spalla e mi
disse: “Ok ragazzo!” e, durante il concerto me la dedicò. C'è
mancato veramente poco che mi mettessi a piangere. Vedete quante cose
possono nascere da una C-60?
(Qui
sotto potete ascoltare in streaming l'intero Mirror
Of My Madness.
Fatelo, ne vale veramente la pena.)
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